Il ballo per i trapanesi (ed in particolare per la gente dell'agro ericino che ha trasmesso a tutta la provincia buona parte dei suoi usi e costumi e dei suoi balli tipici) è stato da sempre un momento di ritrovo, comunicazione, un diversivo che ai tempi antichi era in fondo l'unico al quale dedicarsi con pochi spiccioli e in sana allegria. Era legato soprattutto al periodo di carnevale. Per l'occasione si ballava per tre giorni, oltre il "sabatino" e talvolta anche la vigilia dei tre giorni per una messa a punto generale. Ad esso si dava grandissima importanza tanto che per i garzoni che lavoravano nelle campagne sperdute, furono inventati "li tri jorna di lu picuraru" (i tre giorni del pastore). Il padrone dava loro formaggi e ricotta in abbondanza e carni d'agnello, appunto per trascorrerli in famiglia a mangiare tanto da tenersi in forza. E quindi andare al ballo dove consumare energie sì, ma in primo luogo trovare qualche ragazza da marito, visto che stando a guardare le pecore solo di una pecora avrebbero potuto invaghirsi. Chiaramente non essendo il garzone di delicate fattezze, ci scappava quasi sempre "a coffa", ovvero il rifiuto a ballare da parte della ragazza che lo sprovveduto invitava timoroso e rosso in volto. Ma la massima punta di sacralità il ballo la raggiungeva senza dubbio in occasione del "ballu di lu macararu". Il termine "macararu" trae origine dall'arabo "mahdar" (talamo) e per gli ericini significava la disposizione degli invitati alla festa da ballo che non poteva mancare in ogni matrimonio. Un tempo infatti, il popolo non potendo sostenere le spese per il viaggio di nozze, organizzava una festa da ballo a casa sua o di amici che disponevano magari di un locale più idoneo. E la festa durava dal pomeriggio all'indomani mattina. E la sala del "festinu" metteva a bella mostra un immancabile grande specchio ornato di palme e rami di spezie, davanti al quale si piazzavano gli sposi. Gli invitati venivano fatti accomodare su sedie in doppia fila o a semicerchio, con al centro la sposa la quale, carica di monili d'oro e argento, sottana bianca con merletti, restava impalata alla sedia ostentando grande dignità. Da cui il detto "tisa comu a zita di lu macararu" (dritta come la sposa nel macararu). Gli sposi aprivano le danze a suon di valzer o mazurka e quindi venivano imitati dagli invitati: il tutto sotto la direzione del "maestro di sala". E solo lo sposo poteva permettere che qualcuno facesse ballare la sposa.
La serata veniva rallegrata da un intrattenitore che, impettito, raccontava barzellette, versi dialettali e aneddoti misti ad erotismo e ilarità. L'ultimo esemplare ericino fu il ciabattino Vito Catalano che addirittura sapeva fingersi sordo-muto ed imitare perfettamente gli animali. Divenne talmente celebre da essere invitato in tanti comuni della provincia di Trapani. Con la Tv dei nostri giorni, sarebbe un ricercatissimo showman.
Il ballo si chiudeva con gli invitati che prima di andar via formulavano i migliori auguri agli sposi i quali, se ancora non era giorno, facevano una cena leggera con i parenti intimi. E poichè il sedano per credenza popolare porta felicità e benessere, veniva servito agli sposi - a seconda della stagione - verde, sotto aceto o essiccato.
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