La dimensione del silenzio, della lingua dei padri sussurrata per timori atavici, dell'eco dialettale fanno da cornice al grande alveo degli anni Cinquanta;
quello che, letterariamente, nel riflesso s'irraggia - per cultura popolare per scelte e fattezze, - dalla "Casarsa" pasoliniana agli scritti di strapaese
del Guareschi; mentre, in Sicilia, essa emerge dal coinvolgente e drammatico realismo della "Miniera occupata" di Angelo Petix o della "vigna di uve nere"
di Uvia de Stefani. Un target rivolto all'entroterra siciliano, come si recita in un vecchio film di quegli anni (un piccolo 'uomo dai calzoni corti'),
sulla scia della filmografia neorealista di ambientazione siciliana (per cui non va dimenticata l'empatia de "Il cammino della speranza" espunto da un
racconto di Nino Di Maria), e dove, insieme all'espressionismo di volti e fatti del mondo del lavoro, affiora spesso, nelle immagini e tra le righe,
una solitaria rarefazione di stampo metafisico.
Forse uno stupore; probabilmente una sostanza fatta da un miscuglio di speranza e dolore per l'abbandono, per l'esilio forzoso: una società insulare offesa
dalla noncuranza, dall'indifferenza per la dispersione della sua stessa civiltà, quella agro pastorale, esacerbata e agonizzante. Ci riportano a questa
atmosfera, sotto la vastità della scrittura sciasciana, libri come "Tutti dicono Germania Germania" di Stefano Vilardo, per il quale Leonardo Sciascia
lamentava, in prefazione, come il pungolo poetico/letterario non avesse sufficientemente raccontato la storia della emigrazione del mondo del lavoro.
Poesie, queste di Vilardo, ricreate e raccolte magnetofonicamente, mosse a disegnare la generale doglianza di un popolo.
Così, alcuni esempi: i racconti 'siciliani' di Danilo Dolci, i contadini di Partinico tratti dalla china sapiente di Corrado Cagli, le parole di
Antonio Castelli, le chine di Bruno Caruso, e, ancor prima, le pagine di Nino Savarese. Momenti dove le tracce della civiltà del lavoro, della fabrilità,
dell'economia autarchica, della persistenza dell'homo 'faber', fanno emergere il malumore di una terra per quel sentirsi defraudata, impotente,
prevaricata dall'ombra lunga d'una industrializzazione fagocitante che non la toccherà mai direttamente, e, allo stesso tempo, per la fragilità della
sua tensione morale, privata, per colpe d'altri e proprie, delle sue fondamenta originarie.
Allora, su questa storia fatta di frastagliati sentimenti sociali, di violenze e rancori perenni, come solo in Sicilia sanno manifestarsi, di crescita
espansiva delle realtà criminali, di vanificazioni per l'invadente sostituzione tecnologica, il lavoro di Pasquale Gruppuso, condensato nel suo
volume-catalogo "Sguardi, immagini e scritti sul mondo contadino siciliano" (arricchito, tra i tanti, dagli scritti di Giuseppe Bosco, Salvatore Costanza,
Giovanni Ruffino, Lorenzo Barbera, Tullio Sirchia), attraverso calchi già ampiamente espressi da porzioni apicali dell'arte contemporanea
(da Guttuso a Saro Mirabella a Gianbecchina), non sottacendo densi itinerari firmati da Santo Marino o Giuseppe Tuccio, va destinando con tenacia la
sua microepopea iniziata nel 1967. Sono, soprattutto, "I Ritratti" che ci attraggono, per quella loro nitidezza realistica, per quella lombrosiana
connotazione mimetica, per quella caratterialità che, lentamente, promanano dall'impaginato del volto, dall'interezza del corpo, in un insistito silenzio
del reperto vocale. E', in un certo senso un reportage in punta di penna destinatario il Sud (non a caso Goffredo Fofi insiste, nel suo "Narrare il Sud",
sull'importanza dell' "azione indiretta dell'arte in ogni processo di trasformazione culturale"); un percorso condotto da Gruppuso attraverso il destino
figurativo del popolo contadino per cui tanto si è espresso un critico di passione, Francesco Carbone, attraverso la sua "Godranopoli", oggi tristemente
avvolta dall'abbandono.Vi emergono, comunque, quei valori antropologici magnificati dai manufatti, dalle liturgie festive, dall'intensità del valore legato
all'abilità della mano, del gesto, da quel sapere antico geneticamente tramandato (dalla tosatura alla macellazione, dal confezionamento di manufatti
alle abilità dei servizi, alle ricordanze del lavoro minerario). I ritratti a carboncino, comunque, segnano icasticamente umane situazioni da dove emerge,
in una sorta di manualetto delle identità, quella tassonomia umana (e sociale) che fu alla base di un certo ineludibile disegno morale ancora vagante nel
sofferto respiro del tempo.
Aldo Gerbino
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