È giusto osservare e chiarire che Paceco era stata fino alla fine della feudalità, avvenuta nel 1812, una piccola "universitas" che
aveva vissuto, come tanti altri piccoli comuni siciliani, una vita sonnolente e modesta attorno alle poche concessioni del principe. Ciò
non consentì una elaborazione di ceti sociali dinamici, come invece accadde in altre città feudali o demaniali, dove le libertà
cittadine, i privilegi, consentirono uno sviluppo diverso e più importante delle varie componenti sociali.
Tuttavia, poco dopo la metà del secolo XVIII, come si evince chiaramente dall'esame analitico dei Riveli del regno del 1748,
incominciarono a Paceco ad enuclearsi alcuni ceti produttivi che vivevano ai margini dell'economia feudale; in pratica un piccolo
patriziato di paese, un ceto artigiano che viveva ai margini della ricchezza della chiesa locale e della casa del principe, ed infine un
ceto contadino medio che andava ritagliando, a poco a poco, dal feudo principesco, alcune fette di terra, attraverso concessioni,
soprattutto in enfiteusi.
Famiglie come gli Alestra, i Martorana, gli Occhipinti, i Basiricò, gli Inglese, i Savalli, i Giliberto, gli Ingardia sono esempio tipico
di questa piccola borghesia rurale che si va formando nel paese.
Tav. 4 Giacomo Spadola, in una foto tessera del 1938
Con la fine della feudalità, pertanto, in considerazione della stagnazione economica e sociale in cui si venne a trovare il Comune,
iniziò quell'enucleazione sociale che doveva sfociare, poi, in un contrasto violento tra chi riusciva a salire fino a posizioni
ragguardevoli e chi invece rimaneva alla base della cosiddetta scala sociale, come i braccianti-proletari.
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