Giuseppe Marco Calvino


opere teatrali


novelle in versi


testi inediti


la copertina del libro Il secolo illuminatissimo

la copertina


Salvatore Mugno - scrittore

Salvatore Mugno
scrittore



Ringraziamenti:
Renato Alongi
Renato Lo Schiavo
Renzo Porcelli
Sergio Marchingiglio

Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

Giuseppe Marco Calvino - Il secolo illuminatissimo
a cura di Salvatore Mugno

Busto di Giuseppe Marco Calvino presso la Cattedrale di Trapani
Busto di Giuseppe Marco Calvino presso la Cattedrale di Trapani

precedente

successiva

III. CALVINO INEDITO

1. TESTI TEATRALI IN PROSA
La pace domestica a cimento


Nel corso di una sola, intricatissima giornata, la quiete di una patriarcale famiglia di una piccola cittadina siciliana viene messa a dura prova e, conclusivamente, recuperata nell’euforico lieto fine.
Fil-rouge di tutta la vicenda è, ancora una volta, un poetino, Giulio, “traviato” per definizione, nei testi del Calvino.
Il giovane, per soccorrere una sfortunata ragazza, Eluisa, si indebita e, segretamente, svende parte dei beni della casa paterna, in cui risiede con la moglie, Isabella, e la loro figlioletta.
Poco apprezzato e, poi, ignorato come scrittore, inabile ai commerci, non gli resta che esercitare la propria liberalità a spese del genitore.
Eluisa vive con il dottor Bernardo, sedicente zio della ragazza, empirico di bassa lega, tanto da aver procurato la morte di alcuni suoi pazienti ed aver perduto la clientela.
Il buon Giulio non sospetta della mala fede del cerusico, né si avvede dei raggiri di cui è vittima al circolo, ad opera degli altri giocatori, incluso il falso amico Cavaliere Tomasetti. Quest’ultimo vorrebbe addirittura spingerlo a sfidare a duello un baronetto che lo avrebbe offeso spargendo maldicenze sul suo conto.
Il poeta spiantato si sottrae allo scontro con argomentazioni di notevole coraggio e modernità sul piano tematico e storico.
Il Cavaliere, battuto sul terreno “filosofico” in materia di “sbudellamento”, contrattacca sostenendo che il baronetto insidierebbe Eluisa (per cui Giulio proverebbe un inconfessato trasporto sentimentale). Il suo intento è di favorire che i due supposti contendenti si scannino a vicenda e così soffiare loro la ragazza.
Anche l’empirico, frattanto, si adopera per la rovina di Eluisa: vorrebbe corromperla con una «borsa piena di monete» di oscura provenienza e cederla all’offerente. Ma la giovane rifiuta e chiede ancora soccorso a Giulio, a cui adesso Bernardo vorrebbe impedire definitivamente l’accesso nella casa in cui risiede con la sventurata.
Nel secondo atto, Isabella confida a Luca - il fedele servitore - il suo turbamento per le stranezze e le “segrete” angosce del marito, che, peraltro, avrebbe perfino sospeso la sua passione per la scrittura dopo i settenari celebrativi per la nascita della figlioletta...
Guglielmo, il padre di Giulio, crede, al contrario, che il figlio sia sempre immerso nell’innocua, sebbene inconcludente, attività letteraria, come proverebbe un recente sonetto amoroso intravisto tra le carte del giovane.
L’anziano padre si duole, semmai, di due vecchie insanabili ferite: la morte della moglie e la misteriosa scomparsa della figlia Lucietta (così viene introdotto, tra le righe, lo snodo dell’agnizione).
Isabella si insospettisce ancor di più. Si decide, perciò, a chiedere lumi allo sposo, scoprendo che è assente dal suo studio.
Luca tenta di giustificare il padroncino, inventandosi che quell’inquietudine sarebbe da spiegare col furto di preziosi dal gabinetto di Giulio, dove, nel frattempo, Guglielmo e Isabella frugano alla ricerca di indizi e, soprattutto, del sonetto.
Si farà credere alla donna che il marito l’abbia scritto dietro commissione dell’amante di Eluisa.
Isabella non chiede che di poter conoscere e magari soccorrere, anche lei, quei due giovani innamorati preda della malasorte.
Il terzo atto si nutre di una commistione d’equivoci e di colpi di scena.
Cicco - il servo di Bernardo - si reca in casa di Giulio per restituirgli la roba e i denari avuti a titolo di assistenza, di soccorso.
I famigliari del poeta credono si tratti della consegna del maltolto, della refurtiva.
Giulio s’impossessa degli zecchini e sparisce. Bernardo va a reclamare la ricevuta dei beni resi, rivelando, al contempo, che il giovane poeta sarebbe innamorato di Eluisa e gettando così nello sconforto Isabella.
Sopraggiunge Eluisa ad annunciare che Giulio starebbe per battersi a duello.
Guglielmo si precipita per impedirlo, riuscendo ad evitare la disfida.
Si attribuiscono, ormai, alla povera ragazza colpe che non ha.
Nel quarto atto, Guglielmo, reduce da un colloquio con Eluisa, ribalta la sua opinione sulla giovane, definendola un “angelo”. Soprattutto riconosce la straordinaria somiglianza tra lei e il figlio Giulio, di cui, adesso, condivide gli sforzi altruistici e la tutela accordata alla sventurata. Questa, dal suo canto, manifesta l’intenzione di chiudersi in convento per il resto dei suoi anni.
Il climax trova delle divertenti pause nelle incursioni del vile Bernardo, che prova a circuire la vecchia domestica Leonarda per averne del vino e, poi, si profonde in confidenze intorno alla propria attività.
Giulio, intanto, dichiara incautamente il proprio amore ad Eluisa, sempre più decisa a ritirarsi in un “asilo”.
Nel conclusivo quinto atto, l’empirico riprende con la violenza Eluisa, che aveva trovato provvisorio ricovero presso la casa di Guglielmo: vorrebbe cederla al barone con cui Giulio stava per battersi a duello.
La generosa Isabella accorda il perdono al proprio impetuoso e intemperante marito, parteggiando per Eluisa affinché si provveda a strapparla dalle “grinfie” del falso zio.
A risolvere l’ingarbugliata vicenda concorreranno la magistratura e la imprevista comparsa di Rodolfo, un cognato di Guglielmo. L’uomo aveva avuto in affidamento Lucietta (che si scoprirà essere Eluisa) e, morta la moglie, Petronilla, per potere entrare in possesso dei beni lasciati dalla coniuge, si era dovuto “disfare” della ragazza: fingendo che fosse morta di vaiolo, l’aveva invece consegnata a una girovaga compagnia di ballerini. Adesso, forse pentito, svela l’inganno.
Rodolfo e Bernardo finiscono in gattabuia. Agli altri non resta che essere felici e contenti.
La rete connettiva di questa ponderosa commedia, ci pare si possa indicare in alcuni motivi fondamentali, in qualche caso ricorrenti nella produzione calviniana, in primo luogo la rappresentazione dello status di scrittore nella Sicilia (e nella Trapani) d’inizio Ottocento.
L’autore delle Scherzevoli deve soffrirne parecchio, se quasi non perde occasione per segnalarne il disagio.
Il servitore di Giulio fa fatica a rimediare pochi zecchini dalla svendita di pezzi di biblioteca del suo padroncino: «Pei libri vorrei dirigermi a qualche persona dilettante di tal mercanzia e, nel nostro paese... Non so se mi intendete» (atto primo, scena prima).
Non c’è spazio per i beni della cultura.
Il poeta viene confinato a riconoscere la propria inettitudine insieme all’insuccesso, ad assumersi la “colpa” di aver voluto tentare quel fatuo e ignobile “mestiere”: «Pur troppo t’intendo, hai ragione. E ciò è stato causa d’ogni mia disgrazia. Le mie prime produzioni eran compatite, erano accolte nella mia patria. Se mi avessero dato incoraggiamento, forse avrei proseguito in una carriera nella quale mi sentivo spingere dalla natura, e nomea e gloria mi avrei procurato anziché languire nell’ozio, in quell’ozio ch’ora mi ha tratto in tanti disordini» (atto primo, scena prima).
Gli effetti nefasti della letteratura accompagnano e seguono l’insana passione.
Quanto al contesto famigliare, Guglielmo, il padre dello sfortunato scrittore, si rallegra del diletto letterario del figlio, ma sol perché tale attività sarebbe meno perniciosa di altre e, comunque, la ritiene anch’egli priva di utilità.
Egli attende che il giovane “maturi” fino a potersene liberare: il lavoro letterario, insomma, come condizione infantile della vita e come svago: «Giulio sta bene. Sempre nel suo gabinetto di studio, sempre. Meglio così! Lasciamolo conversare co’ libri. Che si diverta con questi piaceri innocenti. I libri sono i suoi amici, i suoi piaceri, sia benedetto Iddio! Al giorno d’oggi, gli amici traggono a rovina. Intanto non posso soffrire che tutti mi dicono ch’io fo male a farlo stare così ozioso e che dovrei pensare ad informarlo degli affari di casa, del negozio. (...). Ma la sua testa calda parmi impossibile che per ora possa adattarsi. (...). Lascialo divertire!» (atto secondo, scena seconda).
Isabella, la moglie di Giulio, dal suo canto, entra soltanto per vie traverse in contatto con l’universo intellettuale: quando ne ricava che l’uomo è preso da altri, estranei e misteriosi pensieri. Non si allarma di una eventuale crisi di creatività né si preoccupa di apprezzare le composizioni del poeta, che prova piacere a sottoporgliele («(...) bench’io non sia portata di darne giudizio» precisa la donna) (atto secondo, scena prima).
Il cassetto del letterato acquista, invece, motivo di curiosità nel momento in cui Isabella scopre un sonetto amoroso “extraconiugale”: «Sarà questa la prima volta che ardisco spiare nascostamente gli andamenti di mio marito. Ho, di più, osservato in Giulio una gran precauzione perché non si penetri nel suo gabinetto» (atto secondo, scena prima).
La donna, poi, riscatterà il “sacrilegio” col perdono e la comprensione della “sbandatella” del marito resipiscente!
Molti spunti offre il testo sul piano della critica dei costumi domestici e sociali, sebbene l’autore non spinga fino in fondo le proprie “provocazioni”: la famiglia, ad esempio, pur nel caos e nello scompiglio in cui viene descritta, è ancora oggetto di adulazione, scrigno dei buoni sentimenti. E la “donna” (contrariamente a quanto assistiamo ne le Scherzevoli e nei testi narrativi in versi qui raccolti) non è ancora uscita dalla mitologia (e dalla necessitata ipocrisia) della purezza: Eluisa ed Isabella non compiono mai un passo falso, sono delle virtuose, modelli di onestà e rettitudine (si tratta, tuttavia, della moglie e della sorella del protagonista “poeta”: e si sa che certe malefatte escludono sempre la propria stretta cerchia parentale, per convenzione e per comodità, sia pure letterarie!).
Il contesto patriarcale, insomma, slitta nella comédie larmoyante, fondata su “amoretti” tanto credibili quanto stucchevoli.
Nella conclusiva massima di Guglielmo («Il resistere alle passioni, il vincerle è la più bella virtù, che merita in ricompensa tutto il celeste favore» (atto quinto, ultima scena), con cui si rivolge alla ritrovata Eluisa, sembra quasi di ravvisare un ribaltamento delle teorie del divino Marchese de Sade.1
Certamente più ardite sono le stoccate calviniane - col loro seguito di postulati e corollari - in materia di duelli e “cavalieri”.
Quando Giulio, dichiarandosi “inadeguato”, si sottrae alla sfida col baronetto, ci consegna una rinnovata visione della civiltà e della “nobiltà”: «Io penso con altri principj. Saranno plebei, ma più ragionevoli al certo e, pria di tutto, esaminiamo il fatto: si presume esser stato offeso l’onor mio, e qui son d’accordo con voi. Ogni uomo, o nobile o plebeo che sia, è in dovere di conservarselo intatto, ma per una calunnia un duello! Non v’ha mezzo più ridicolo e inefficace di questo per contraddirla sempre. (...). Per un cavaliere non è bastante punizione restare smentito col fatto? Che sangue! Che duelli! L’onore debba conservarsi. Perduto una volta, davero son vani tutti i risarcimenti. Il sangue di tutta l’umanità non vale a tanto... Agli occhi del mondo savio, la mia condotta mi giustifica abbastanza e mi fa trionfare. Fingiamo per poco che il mio avversario, in tal guisa avvilito, per fortuna mi superasse nel duello. Secondo i vostri principj, la ragione passeria dal suo canto, ed il povero onor mio... Sì come in quei tempi eroici, cavallereschi! Si dichiarava innocente un’adultera sfacciata se per sorte trovava un cavalier valoroso che abbattesse l’usurpatore. Caro amico, questi sanguigni lavacri purificanti non son pe’ nostri tempi. No, ridetene meco!» (atto primo, scena settima).
Viene così sostenuto il principio di uguaglianza tra gli uomini, a prescindere dallo status e dai titoli nobiliari, ponendo in ridicolo I pregiudizi del falso onore (già denunciati dalla commedia dell’Albergati, citata dall’autore insieme al romanzo epistolare Giulia o la nuova Eloisa del Rousseau - peraltro fondato sul tema della rinuncia ad un amore insostenibile al pari di quello di Giulio per Eluisa - a sostegno della sua riflessione a non comporre con le armi le controversie interpersonali).
Tali venature illuministiche nel pensiero calviniano trovano, d’altro canto, ampie giustificazioni nel retroterra trapanese in cui l’autore viveva e dove la pratica del duello - una sorta di ossessione come nel celebre racconto conradiano portato sullo schermo da Ridley Scott - era assai diffusa e praticata, almeno fino alle soglie del Novecento, come testimoniano i resoconti della cronaca dell’epoca e la presenza nel capoluogo di scuole dirette da illustri spadaccini.2
Il riferimento al testo dell’Albergati serve, peraltro, al Calvino per sottolineare anche le potenzialità morali e civili della letteratura, in opposizione alle convinzioni di un suo personaggio, il cavaliere Tomasetti, che sostiene: «Quella commedia non saprei quanto giovi al costume. Io penso che possa a noi nuocere, alle leggi dell’onorato viver civile» (atto primo, scena settima).
L’innesto di un brano della Nuova Eloisa gli consente, d’altra parte, di contrapporre il diritto alla violenza, la ragione all’assassinio, introducendo, in questo modo, senza troppo rumore, il tema della giustizia, la “regina” delle umane tenzoni e male dei mali, laddove non se ne offre che briciole, lasciando alle private “soddisfazioni” la composizione dei dissidi e delle offese.
E, malgrado l’autore trapanese temperi abbondantemente tali sottili denunce, chiudendo il suo testo col trionfo del bene mercé l’intervento giudiziario, ancora tra le righe - quasi un’incidentale riflessione mentale del padre di Giulio - egli non manca di segnalare che i giudici non sempre manifestano la stessa solerzia espressa con la condanna dell’empirico e del cognato di Guglielmo: «E intanto questi uomini facinorosi, non solo son sofferti, ma sono adulati, son riveriti, tutti li temono. Gli stessi magistrati non s’arrischiano...» (atto quinto, scena ottava).
Della miseranda condizione di una aristocrazia decaduta e vacua, è ancora simbolo il citato Tomasetti che, nel tentativo di tessere uno squallido elogio della sua fierezza di casta, tradisce la propria dappocaggine. Stimandosi superiore ai propri antenati, ambisce a prendere le difese della povera Eluisa: «(...) i cavalieri moderni non la cedono in nulla agli antichi. Un altro fanatico chiamerebbe l’ombra de’ suoi antenati per aiutarlo all’impresa! Che fanatici! Fatti, fatti e non parole! Signorina, a ben rivederla... Buon uomo dormite tranquillo, non tornerò senza vostra figlia. Un cavaliere antico avrebbe detto: fidate nella mia protezione. Io vi dico: contate sulla mia parola!» (atto quinto, scena nona).
Flatus vocis, appunto, è tutto ciò di cui può disporre: chiacchiere!
Non meno intriganti sono gli attacchi che il Calvino muove alla genia di ciarlatani che usavano industriarsi da speziali e medicastri.
Anche nelle Scherzevoli lo scrittore trapanese si era mostrato sensibile a tale argomento, intorno al quale il Pitrè fornisce gran messe di notizie.3
E non si può non ricordare che ancora oggi, in Sicilia e, segnatamente, nella provincia trapanese, maghi e guaritori sono operanti in gran copia e con grande personale profitto, nonostante certi ferali episodi e taluni “donchisciotteschi” tentativi di resistenza.4
Quest’opera calviniana, insomma, avrebbe parecchie cose da dirci, sulla nostra recente storia ma anche sull’oggi.
A differenza di altri testi del Trapanese, si caratterizza per l’ambientazione per lo più “alto-borghese”, pseudo-aristocratica, malgrado nel primo atto si faccia riferimento all’origine non nobile del protagonista Giulio (in cui si potrebbe, peraltro, ravvisare un richiamo autobiografico dell’autore).
Il linguaggio e il tono dei dialoghi risultano spesso assai sapienti e ben cadenzati. E le scene godono di un respiro ampio, pacato, pieno, al punto, tuttavia, da risultare in qualche caso sovrabbondante.
Il secondo e il terzo atto - almeno alla lettura - sembrano soffrire di lungaggini e di qualche macchinosità. Degli sfoltimenti gli sarebbero certamente giovati.


NOTE

1 Cfr. Sade, La nuova Justine ovvero le sciagure della virtù, a cura di F. Rossini Nicoletti, saggio introduttivo di G. Nicoletti, Roma, Newton, 1993; e Sade, Juliette ovvero le prosperità del vizio, a cura di P. Guzzi, saggio introduttivo di G. Nicoletti, Roma, Newton, 1993.
2 Si veda, ad esempio, il reportage di un omicidio per duello (Processo Serraino-Sacco) sul settimanale «La Falce» (Trapani) del 1898. Cfr., inoltre, Taluni giudizi sopra Turillo di San Malato. Garibaldino e Schermidore, Trapani, F.lli Messina, 1906; S. Lo Cicero, Athos di San Malato, Palermo, Sanzo, 1929 e G. Giannitrapani, Athos di San Malato, «Sicilia Oggi», Trapani, giugno 1966.
3 Cfr. G. Pitrè, Medici, chirurgi, barbieri e speziali antichi in Sicilia. Secoli XIII-XVIII, Milano, Reprint, 1992, alle pp. 168 e ss.; G. Pitrè, Medicina popolare siciliana, Milano, Reprint, 1992.
4 Cfr. G. Maniscalchi, «Abuso di credulità popolare». Sotto processo 6 presunti maghi, «Giornale di Sicilia», 11 dicembre 1996.

precedente

successiva





E-mail e-mail - redazione@trapaninostra.it