Giuseppe Marco Calvino


opere teatrali


novelle in versi


testi inediti


la copertina del libro Il secolo illuminatissimo

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Salvatore Mugno - scrittore

Salvatore Mugno
scrittore



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Renzo Porcelli
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Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

Giuseppe Marco Calvino - Il secolo illuminatissimo
a cura di Salvatore Mugno

Busto di Giuseppe Marco Calvino presso la Cattedrale di Trapani
Busto di Giuseppe Marco Calvino presso la Cattedrale di Trapani

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I. CALVINO EDITO

2. UOMO DI SCENA

Che il Calvino fosse interessato alle iniziative e alle sorti delle esperienze teatrali del suo tempo, risulta da una molteplicità di dati: dagli interventi “civili” affinché Trapani potesse godere di un dignitoso teatro ai frequenti riferimenti poetici allo stato degli “spettacoli” cittadini, dal profilo sociale del suo modo di intendere l’arte e l’attività culturale alla vasta conoscenza della drammatica dell’epoca, testimoniata dalle dotte citazioni di opere e autori, ma, soprattutto, dalla personale copiosa produzione per il teatro, benché rimasta per lo più inedita.
A cavallo fra Settecento e Ottocento,1 i palcoscenici siciliani non godevano di buona salute, malgrado al nostro autore non difettasse l’informazione su quanto avveniva in Italia e in Europa.2
La realtà trapanese non poteva che suscitargli apprensioni e ilarità.
Dagli studi condotti sull’argomento,3 viene certificato che, almeno dal 1807, nel nostro capoluogo operasse l’angusto e malconcio teatro S. Gaspare, allocato nella attuale via Libertà. Risultano documentate l’indecorosità del sito e le travagliate vicende che portarono alla realizzazione di una nuova struttura: il Teatro Ferdinando, inaugurato il 15 ottobre 1849, intitolato a Garibaldi nel 1860.4
Meno precise sono le notizie storiche sulle attività teatrali trapanesi nel Settecento, sebbene non manchino talune incontrovertibili fonti notarili, a cui si accompagna la sicura presenza dell’opera di Nicolò Burgio, composta di drammi religiosi, dialoghi, oratori e di un interessantissimo testo di timbro illuministico in cui si fa ampio resoconto dei gusti e dei vizi dell’uditorio teatrale conterraneo.5
Il Calvino satireggiò in più occasioni sul S. Gaspare, nel quale furono forse portati in scena due suoi testi, L’Omaggio e Il calzolaio di Alessandria della Paglia: egli, «che in quegli anni rappresentò per il suo prestigio intellettuale la voce più autorevole della borghesia colta e riformatrice, si batté insieme con Beltrani, Omodei e i Fardella per far approvare dal Comune, dove subito si manifestarono resistenze non disinteressate, il progetto del nuovo teatro. (...). Giuseppe Marco Calvino firmò, a pochi giorni dalla morte (...), l’ultimo atto del suo impegno civile con un capitolo in versi, acre e beffardo, indirizzato “all’amico Antonino Gentile”: immaginava di assistere al commercio dei “pizicagnoli” e macellai, all’abbanniata dei pescivendoli, nel luogo che un tempo era occupato da “mule, mole e mugnai”. (...). Le terzine del “capitolo” (162 versi, tuttora inediti) erano commentate dallo stesso Calvino con interessanti annotazioni storico-urbanistiche, da noi riportate per intero tra le testimonianze di questo libro».6
Nella missiva All’amico Antonino Gentile - progettista del costruendo edificio teatrale - il Calvino esprime il timore che, accanto al luogo in cui dovrebbe venire eretto il teatro, venga ad insistere un mercato, seppure «nelle varie contrade della città sendo provvisti a sufficienza di locali ove le grasce d’ogni sorta trovansi esposte a qualunque ora. Ma però un decente Teatro, che tenda al maggior incivilimento, al buon costume, alla ricreazione del cuore e della mente, ed in una città industriosa come a sollievo delle solerti fatiche, non ha mai esistito».7
Si sofferma, inoltre, sui vantaggi che deriverebbero dalla realizzazione di un dignitoso teatro, malgrado «Avvi taluno che mosso dal proprio interesse in sostegno del teatro esistente che meglio può chiamarsi un serraglio (...) con cento tranelli ha turbato oltremesura l’erezione del nuovo teatro. Ma dove s’intese mai che l’interesse privato abbia fatto ostacoli all’util pubblico?».8
L’autore siciliano riteneva che fosse tempo che la città venisse dotata di quell’istituzione culturale, memore dei passati ostracismi, decretati dalla Chiesa e da autorevoli personaggi: «I nostri antichi Padri della Patria, in tempi ne’ quali il teatro era contaminato da mimi impudenti e da scurrili istrioni che vi rappresentavano delle farse e de’ drammi, in cui spesso con grave scandalo le cose più degne da indigene oscenità eran profanate, con saggio intendimento si legarono ad un voto di non permetter le donne in Teatro. E zelanti missionari - fra gli altri un reverendo cappuccino - ne’ tempi andati raccomandavano il mantenimento della soprapromessa. Ma vede ognuno che la riforma stessa del moderno teatro, il quale rigido si attiene alla santa morale, da ogni voto ne ha di già sciolti».9
Il Calvino pensava, forse, anche al trapanese Francesco Del Monaco che, a suo tempo, si era distinto nella demonizzazione delle cose teatrali.10
Ma il testo in cui lo scrittore trapanese affonda gli artigli sullo stato delle rappresentazioni di spettacoli e sulle compagnie di guitti - autoctone e itineranti – è di sicuro il divertente “capitolo” intitolato Il teatro comico di provincia (già carico di echi goldoniani), in cui, con finissimi endecasillabi, sembra anticipare e pregustare il magistero marroniano delle Carnascialate, dove a prendere la parola sono i personaggi della commedia dell’arte.11
L’autore fa, innanzi tutto, ammenda di aver lodato, in un suo sonetto, un’attricetta da nulla. Nell’illustrare l’abbaglio, descrive la miseria degli zerbini locali, la loro piaggeria rispetto a una modesta accolita di teatranti forestieri. Toccato nel vivo della propria sensibilità, con felicissima scrittura e scatenata fantasia, il poeta intreccia giudizi e preziose informazioni sugli usi e sui gusti delle nostrane platee, sugli autori alla moda e sulla fondamentale funzione che il teatro dovrebbe assumere in ogni città,12 offrendo indicazioni e implicazioni di natura sociologica, psicologica, culturale: laddove, ad esempio, si denuncia che l’umiltà e l’ossequiosità dei concittadini del poeta nascerebbero soltanto da debolezza e insicurezza; o quando si segnala che in loco non si farebbe fede nella possibilità che la terra natale possa offrire ingegni; così come nel sottolineare il pregiudizio nel tributare applausi e riconoscimenti e, d’altra parte, il silenzio a cui deve rassegnarsi la persona avveduta, capace di autonomo giudizio; negli accenni agli spassi, ben lontani dalla passione per il teatro, a cui era adusa la gioventù; o ancora nella condanna della “porcilaia” che avrebbe dovuto dar lustro alla civile comunità.
Calvino presenta anche un sommario dei commediografi rappresentati, consentendoci, di riflesso, di apprendere qualcosa sulle sue stesse frequentazioni letterarie: Giovanni Giraud, Vittorio Alfieri, Alberto Nota, Francesco Albergati Capacelli, August Von Kotzebue, Carlo Goldoni.
Si può, exempli gratia, supporre che la concezione liberale dell’Alfieri protoromantico, sostenitore del dissenso contro ogni imprigionamento sociale, abbia potuto segnare il pensiero calviniano; sembrerebbero, inoltre, ben visibili, nello spirito dello scrittore siciliano, lo sfrenato ottimismo vitalistico, le riforme tecniche e le novità tematiche goldoniani.
Per non pochi aspetti, anzi, Calvino si potrebbe annoverare tra gli ammiratori di Molière e tra i post-goldoniani (come il realistico e pungente Giraud, il manierista Nota, l’Albergati Capacelli sodale ed epigono del grande maestro veneziano).
Non gli erano, del pari, estranee le collaudate corde del tedesco Kotzebue, comprese le sue contraddizioni, frutto di satira anticampanilistica, di pietas per la condizione del poeta, di attenzione ai temi della schiavitù negra, commiste a sortite canzonatorie ai danni delle spinte giacobine e rivoluzionarie.
Il teatro calviniano risente fortemente di tale retroterra e, soprattutto, della lezione dell’autore dei Mémoires.
Nella variegata mole dei suoi inediti teatrali, lo scrittore trapanese recepisce - sebbene talvolta confusamente – la passione per la materia realistica, ricondotta nei nuovi contesti mercantili e borghesi. Il Calvino si dibatte tra l’ansia di rinnovamento sociale e la reazionaria adesione politica, tra la spietata critica dei costumi e il rigetto delle utopie illuministiche, spesso ripiegando sui conflitti interni al focolare domestico. Eppure sono innegabili, nella sua opera, gli slanci di sapore più avanzato ed evoluto rispetto alla vita delle classi più umili, dei pescatori, degli artigiani, dei miserabili truffaldini, che rappresentano le categorie cui bisogna cominciare a dar voce sociale e politica, al di là del prepotere della aristocrazia e dei ceti religiosi e borghesi, dei Pantalone, dei rusteghi.
Il teatro comico di provincia riprende, in un certo senso, il manifesto goldoniano (Il teatro comico, 1750-51) per abbozzarne, tra le righe, una versione periferica, stravolta, degenerata, grottesca.
Il Calvino pure si cimenta nella rappresentazione dello scontro tra le varie classi, passando dai nobili spiantati agli avidi nuovi ricchi, ma portando anche il conflitto all’interno delle categorie più basse, al confine tra i terminali sviluppi goldoniani e le prossime avventure verghiane, di cui si direbbe che preannunzi l’esordio.
Al centro della crescita comunitaria, l’autore de Le scherzevoli non cessa di porre la cultura e i miglioramenti economici e sociali dei suoi concittadini, martellando e provando a smantellare tutti i falsi miti “barthesiani” di cui ancora per lungo tempo si è fatta scudo la chiusa e fatua società isolana. Se appaiono, insomma, obnubilato il tratto politico e incerta l’opzione sul piano concreto della gestione della cosa pubblica, è, d’altro canto, evidente la propulsione innovativa del pensiero e dell’opera calviniana (di quella seria, quasi tutta relegata negli inediti).
Si può, peraltro, notare, en passant, che se il Calvino si proclama, ufficialmente, monarchico e conservatore, di fatto, non lo è: si pensi, ad esempio, al sonetto dedicato Al Ch. poeta estemporaneo Bartolomeo Sestini (con cui forse il Trapanese fu in contatto e di cui, comunque, ammirò la poesia e la breve vita), carbonaro ed esule in Francia.13
Dei tre testi teatrali editi dal Calvino, di minimo interesse è L’Omaggio, brevissima cantata a tre voci (il Genio di Trapani, la Fedeltà e Saturno Tempo), priva di novità formali ed argomentative: consta di poche pagine d’occasione, di timbro retrivo e dal linguaggio arcaico. Una piccola esercitazione manieristica, insomma, in settenari ed endecasillabi.
Ben più ponderosa e impegnativa (cinque atti, in endecasillabi) è, invece, la tragedia Ifigenia in Aulide (1819). Se, per inciso, si considera che essa fu pubblicata a Catania, e che altre opere calviniane uscirono a Palermo e a Girgenti (odierna Agrigento), se ne può arguire che tale produzione godesse di una certa circolazione nell’intera Sicilia.
In un distico del remake euripideo, il Calvino precisa le ragioni di quel suo lavoro: porre un parallelo tra la religione della verità - quella cristiana - e il paganesimo, ma senza voler, con ciò, deridere i seguaci della primitiva fede. L’intento è quello di compiangere l’eroina per il suo sacrificio, addebitandolo alle macchinazioni dei falsi sacerdoti e degli indovini, «riunendo ad una veduta verisimile le diverse tradizioni de’ Poeti antichi su questo passo di storia Greca».14
Lo scrittore appronta un testo classicheggiante, una buona prova d’autore, nell’insieme, benché condizionata dalla tesi prefissata, che pure costituirebbe l’apporto peculiare della rivisitazione calviniana di Euripide: esaltare la giusta religione, condannare i mistificatori e il fanatismo spiritualista. Egli manifesta, comunque, accenti sinceri di partecipazione nell’attaccare l’impostura, l’inganno, la menzogna: sono argomenti a lui congeniali, per i consistenti feedback sui costumi sociali delle radicate credenze (che egli addita, di riflesso, anche nei mores del suo tempo, incluse le farisaiche istituzioni ecclesiali).
Una operazione non vacua, alfine, più che dignitosa.
Resta, tuttavia, confermato che il Calvino “pubblico”, edito, è pur sempre altro da quello carsico, riservato: assai prudente formalmente, nel solco della tradizione, morigerato castigamatti, moralista piuttosto bacchettone, ortodosso...
Tutt’altra materia, stile e propositi nella commedia popolare Il calzolaio di Alessandria della Paglia (1832). Il testo contiene anche una dedica (e uno sprone) a Giuseppe Sammartino («Segretario generale funzionante da Intendente in Trapani») che si stava adoperando per la realizzazione in città di un «sontuoso Teatro», a dire del Calvino.
La scena si svolge in una località d’invenzione che sembrerebbe celare appena il capoluogo trapanese, mentre la durata dell’azione, secondo un modulo snello e moderno, si racchiude in una giornata, dalla mattina alla sera.
Il tema centrale della narrazione è quello dell’ambiguità morale del poeta, impersonato dal giovane Labindo. Intorno alla sua figura, con la bottega del calzolaio Mastro Fabio come luogo privilegiato di osservazione, si proiettano dubbi, sospetti, maldicenze, fiduciose aspettative e coup de théatre.
Il letterato - metaforicamente forestiero in Alessandria - dopo essere stato economicamente aiutato dal Conte Fiamma, sorta di resipiscente mecenate, si ritrova nei guai quando il suo benefattore gli chiede indietro la supposta liberalità.15 Gli s’impedisce perfino di rimettere piede nella cittadina, a causa dei suoi debiti. Il solo a nutrire riguardi e benevolenza verso l’artista è il ciabattino; gli altri personaggi - mossi da passione amorosa, da spirito di intrigo, dai pregiudizi - non fanno che tessere la rete del carcere in cui il giovane finisce rinchiuso.
Sin dalla prima scena, il Calvino pone le basi di un discorso a sfondo sociale e, in seconda battuta, di politica convivenza. Esalta la generosità del poeta che, dei benefici ricevuti dal sedicente filantropo, aveva fatto dono a degli infelici: «E chi può farlo, in vece ti perseguita! Che razza d’uomini si trovano a questo mondo! Ho veduto taluni alla vista di un mendico affliggersi; amareggiarsi, ma miracolo se gli casca un obolo».16
Scoperta è, perciò, la critica dell’avarizia e dell’avidità dei ricchi. Interessante, sul piano dei costumi amministrativo-burocratici, è, ad esempio, anche un breve colloquio tra lo scarparo e un usciere del Tribunale.17
Con un lessico non troppo lontano dall’odierno e, comunque, assai più avanzato rispetto ai precedenti lavori (la particella verbale ha è regolarmente accompagnata dalla h, oppure ignottire è ormai diventato inghiottire), sebbene non privo di termini oggi obsoleti, con sporadiche inserzioni di lacerti storici (reggimento dei Chablais, duelli...), motti umoristici e trovate da commedia degli equivoci, puntuali note di scenografia e recitazione, Calvino propone alcuni dei temi che ritroviamo - doviziosamente trattati - nel suo teatro inedito: Meneghino (uno dei garzoni di mastro Fabio) ironizza sull’ingenuità e sulla cecità dei genitori - e, segnatamente, della figura dei padri - offuscati dall’affetto per i figli («tutta la benedetta anima di Catterina mia!» s’illude don Fabio); Lucinda (la figliola del calzolaio) assurge ad emblema - come tutte le donne calviniane - di intrigo e di penitenza, oltre che di diletto; il ciabattino, dovendo curare un malessere della ragazza, invoca, in successione, l’intervento del medico, poi dello speziale e, infine, del barbiere... Divertente la disputa - ad armi pari - tra medico e barbiere: «No no... Noi barbieri ne sappiamo assai più di loro. Sempre l’istesso che vi ho fin’ora detto, sangue, sanguisughe, emulsione arabica, olio di ricino, siroppo d’altea, sempre le stesse cose per tutte le malattie».18
Pungente la satira sui costumi, la credulità e l’ignoranza dei tempi, come sugli impenitenti ficcanaso.
Il leitmotiv resta, tuttavia, la condizione del letterato siciliano dell’inizio dell’Ottocento. Confida Labindo (vagabondo e avventuriero, agli occhi dei più): «L’istesse mie fatighe letterarie non mi hanno procurato che contrarietà; e come è solito la persecuzione dell’invidia».19
Altro motivo portante della commedia è quello delle tresche sentimentali e delle correlative astuzie femminili. Ghita, la smaliziata figlia del barbiere, che il Calvino ci dice sensibile e avvezza all’odor di stallatico, espone lucidamente (all’”ingenua” Lucinda, che, col padre, rappresenterebbe il rovescio della medaglia, il doppio capovolto dello spregiudicato duo composto da Mastro Saponella e sua figlia) le sue “teorie” sull’amore, di stendhaliana saggezza: «Quando debbo far la pazzia di legarmi, o con persona d’alta condizione, o niente. (...). Una ragazza che ha la disgrazia d’innamorarsi davvero è perduta! Ma, io che conosco il cuore umano, son di parere, che questi veri, e forti innamoramenti non si danno in natura. Spesso spesso è un puntiglio, un capriccio».20 Sito d’elezione delle trame e delle relazioni cittadine è il trafficatissimo salone del barbiere, di cui oggi si può forse rimpiangere il decaduto (e insostituito) ruolo sociale: «Dite la verità, per aggiustar malanni si trova un uomo che mi somigli? Alla mia bottega di negozio ho un concorso che non l’ha il Paciere. Mogli disgustate dai mariti, sorelle dai fratelli, figli dai padri, innamorate dagli innamorati. (...). Tutti da me, tutti, e tutti se ne vanno contenti».21
La memoria, naturalmente, corre al «factotum della città», Il barbiere di Siviglia di Beaumarchais, che nel 1816 era già stato riscritto e rappresentato come melodramma buffo rossiniano.
Nel turbine amoroso penetrano i conflitti tra le differenti caste più che classi sociali (il conte Fantoni, padre del poeta, teme che il figlio possa essere stato sedotto da Lucinda e con ciò corrompersi il «puro sangue de’ maggiori»)22 e all’interno dello stesso ceto popolare (mastro Tiburzio, padre di Paoletto, si batte affinché il figlio rinunci a imparentarsi con la “diffamata” famiglia del calzolaio...).
Il lieto fine è di prammatica: Lucinda e Paoletto sposi; Labindo riabilitato come giovane generoso e onesto, tanto da concludere sentenziando: «Per quanto gli uomini possano giudicare sinistramente dalle apparenze, e tacciar d’infami le più eroiche azioni, il Cielo le corona, trionfa la verità».23
Abbiamo, insomma, assistito a un’operetta frenata, compiacente, funzionale alle finalità e alla destinazione, non priva di macchinosità, intrisa di palesi intenti correttivi dei costumi ed esaltanti le virtù umane e sociali del buon calzolaio («Ammirate in quest’uomo il complesso delle più belle virtù sociali»).24
Dall’insieme dei pannelli, dai traccheggi, dalle maldicenze, dalla coralità dei personaggi, ne esce piuttosto definito il quadro di una Sicilia cittadina che potrebbe funzionare da contraltare a quella contadina di Serafino Amabile Guastella.


NOTE

1 Si cfr., al riguardo, L’isola delle differenze, in C. Meldolesi - F. Taviani, Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 282-316, in cui si propone una panoramica - sia pure non priva di lacune nei riferimenti ai teatri e alla produzione di autori del Trapanese - sulla realtà siciliana dell’epoca.
2 Per un’ampia verifica del background culturale calviniano si vedano, ad esempio, R. Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento, Roma-Bari, Laterza, 1995; R. Turchi, La commedia italiana del Settecento, Firenze, Sansoni, 1985.
3 Cfr. E. Calandra, Una compagnia di comici a Trapani nei primi dell’Ottocento, la «Fardelliana», Trapani, maggio-dicembre 1984, pp. 253-267; S. Costanza, Il teatro a Trapani, Trapani, Società Trapanese per la Storia Patria, 1979.
4 Cfr. S. Costanza, op. cit., passim.
5 Cfr. N. Burgio, Lettere critiche scritte ad una dama in Livorno da Iante Cereniano Pastore arcade, Berna (Livorno, Aubert), 1777. Un ampio saggio critico sull’opera burgiana è stato condotto da R. Scalabrino, Nicolò Burgio e Clavica dei baroni di Xirinda, «Trapani», maggio e novembre 1966.
6 Cfr. S. Costanza, op. cit., pp. 12 e 14. Delle argute e pungenti terzine calviniane, ecco alcuni inediti versi, da cui emerge la commistione e lo stridore di attività religiose, culturali e mercantili: «(...) Santi cristiani, al tempio decoroso/ come soffrir contiguo quel serraglio,/ sordido letamajo rumoroso?// E armonizzar del mulo col sonaglio/ e cantici e bestemmie, e i sagri bronzi,/ gli organi e a un tempo l’asinesco raglio?// (...) Ma qual frastuono! Indietro, o ch’io ti sventro.../ - Misericordia! I crudi macellaj!/ Il coltel becchicida mi sento addentro!// E trecche, e pescivendoli, e beccai,/ tavernaje, trippajole... ohimè qual folla!/ Fruttajoli, erbajoli, bottegaj!// - Misero me! Che l’edifizio crolla!/ Nostra è la piazza.../ Oh, vedi che trambusto!/ Un marciapiedi, un portico restolla.// Nostra è la piazza. Fuori ehi tu bel fusto,/ che teatri? L’odor del nostro arrosto,/ le nostre scene vi daran più gusto.// Saccentazzi, su via sgombrate e tosto:/ filarmonici, o voi filodrammatici,/ cesso ai filocarnivori fia il posto.// Turba oprosa! Turba di fanatici,/ faciniente, che un trillo di bagascia/ rende smaniosi, entusiasti, enfatici.// V’è colui che una sera si sganascia/ di un buffo a’ lazzi, e poi morto d’inedia/ avanti una [donnuccia] il cuor ci lascia;// e i soldi mal gittati alla commedia/ maledice, ed il sangue di vitello/ disia, digiun del sangue di tragedia.// E qual più bella scena di un macello?/ Tenzonerete di peducci e capi/ che ricrea ‘l solo odor tutto il budello!// E che? Dimenticano i nostri capi/ de’ padri della Patria il sagro voto?/ Né temon le scomuniche de’ papi?// (...) Secondiamlo noi pure: dalli dalli:/ al suo nascer si svelli il tristo seme,/ opra della versiera e canti e balli.// O rabbia! A tanta insania e chi non freme?/ Fu il teatro a ragion proscritto allora/ de’ strioni impudenti alle blasfeme.// La diavolessa che un santo martora,/ maestra di lascivie e sudiciume,/ colle lusinghe d’armonia canora// e a scorno del pudore e del costume,/ puttaneggiando gli evirati in gonna, mostran la scena fogna di sozzume.// Or che santa morale è fatta donna/ dell’odierna scena, e la pudica/ vergin vi assisti coll’austera nonna,// lascia ogni spigolistro che par che dica:/ quanto al viver civil giovi il teatro/ que’ picchiapetto non comprendon cica.// Barbari, bisboccioni, d’umor atro,/ lascia pure che abbajno alla luna:/ per poco non ti accusano idolatro.// (...) Ti loda a ciel, con scaltra gherminella,/ magnifico un mercato, al par che un foro,/ di cui nobil metropoli si abbella.// (...) Biblioteca, altar, mercato! Allocchi!/ Che a tal vi guida, chi vi spinge innanti,/ tenton vi guida, colle bende agli occhi.// (...) Fine della beffa. Fu il voto esaudito/ de’ buoni al supplicar, perché vi sorga/ dell’Arti il tempio disgombrassi il sito.// (...) Come può sofferir chi ha cuore umano/ nel più bel centro un sozzo macellame,/ spettacol da cannibali, inumano?// (...) Basta fin qui: del secol nostro i lumi/ a tal nequizia s’opporran mai sempre,/ se non è scritto in arcani volumi// che mai dobbiam restar barbari sempre».
Lo scrittore fa cenno allo sconveniente teatro S. Gaspare anche in La minata di lu palchitteri. Affrittu cori: «Lu Teatru unni agìa/ è ‘na gaggia di surci (...)» (cfr. G.M. Calvino, Lu dimoniu e la carni, Catania, Tringale, 1978, p. 110).
7 Cfr. S. Costanza, op. cit., p. 40.
8 Cfr. S. Costanza, op. cit., p. 41.
9 Ibidem.
10 Cfr. F.M. Del Monaco, Parenesi contro gli attori e gli spettatori di commedie del nostro tempo, Padova, Laurenti Pasquati, 1621; rist. Venezia, S. Celeti, 1672. Notizie sul teologo e filosofo trapanese, insieme ad alcune sezioni dell’opera citata, sono in F. Taviani, La commedia dell’arte e la società barocca. La fascinazione del teatro, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 181-222.
11 Cfr. T. Marrone, Antologia poetica, a cura di D. Breschi, Napoli, Guida, 1974, pp. 93-120.
12 Cfr. G.M. Calvino, Il teatro comico di provincia. A’ zerbini filodrammatici, in Rime, Trapani, Mannone e Solina, 1826, vol. II: «Eppure, fra lo stuol sucido, e lercio,/ vedrete con qual aria altera e franca/ di regole e sentenze si fa smercio./ Duro è il verso d’Alfieri, annoja, stanca,/ il senso oscuro, le tragedie sue/ non han colpi di scena, azion vi manca./ Goldoni è antico che non conta piue;/ lungo è Albergati, con quel serio affredda;/ romansesco, stentato è Cokzabue./ Giraud senza intreccio, e secca, e fredda/ del dialogo è tutta l’andatura,/ il Nota allo sviluppo si raffredda:/ e via seguendo la dotta censura,/ fan degli autori strazio, e v’ha ch’imbocca/ scempiaggini di simil natura./ E già vedrassi la ciurmaglia sciocca,/ il sedicente stuol filodrammatico/ starsi ad udirli a spalancata bocca./ Quanto ignorante tanto più fanatico,/ poi loderà alle stelle uno spettacolo/ Tragi-Comico-Eroico in tuono enfatico/ alzato è il cartellone; e del vernacolo/ Servo sciocco trionfa il nome in minio,/ che al dramma c’entri, o no, nulla fa ostacolo;/ ed accanto di Bruto, o di Virginio/ Lappanio si vedrà, Pasquino, o Fozio/ minacciare agli eroi morte, e sterminio» (pp. 38-39); «Qual contrasto! Applaudir mentre si annoja?/ E quelli piaggiarlo, in cor rabbiosi/ quando trar gli vorrebbero le cuoja?/ Il timor li fa umili, e rispettosi;/ che in Provincia non credeono in lor zucca/ poter darsi degli uomini famosi./ (...)./ E vengon prevenuti e persuasi/ della celebrità del personaggio,/ pronti a batter le mani in tutti i casi./ Fra tante bestie inutile del saggio/ sarà quindi il parere, e meglio e’ taccia,/ s’espor non vuolsi ad impudente oltraggio» (pp. 41-42); «Gioja perduta - ma teatro appello/ questa sorciaja, ovver porcile immondo./ (...)./ Se il canavaccio sucido o sipario/ s’alza, nel tutto si vedrà un accordo/ di scenario, vestiario, ed impressario./ Oh fosse lo straniero e cieco, e sordo:/ della colta città la falsa acquista/ idea di letamajo fetente, e lordo./ Che dal teatro idea più si racquista/ di Città, che da cupole e obelischi;/ quivi costumi, ed arti è tutto in vista.../ Ma, sento giusto l’armonia de’ fischi/ al biasciar di una semplice parola;/ la servetta per deschi ha detto dischi» (pp. 46-47); «Che parlo mai di bel? D’arte? Non vassi/ oggi al teatro, che per bizzarria.../ Gode la Gioventù ben altri spassi» (p. 50).
13 Bartolomeo Sestini (San Mato, Pistoia 1792 - Parigi 1822) fu un celebrato improvvisatore dai toni arcadici. La sua opera più nota è Pia de’ Tolomei, una novella romantica, in ottave.
14 Cfr. G.M. Calvino, Ifigenia in Aulide, Catania, Tipografia dell’Intendenza, 1819, p. 3.
15 Cfr. G.M. Calvino, Il calzolaio di Alessandria della Paglia. Commedia in tre atti in prosa, Trapani, Società Tipografica, 1832, p. 9: «Da bella prima per l’ambizione di comparir protettore de’ letterati lusinga il povero signore, gli da quelle somme maledette, che saranno state forse l’ingentivo ad una liberalità naturalissima in un giovane ben nato, in un poeta come Labindo, e finisce poi, senza aver riguardo né alla nascita, né a’ talenti, finisce col perseguitarlo (...)».
16 Cfr. G.M. Calvino, op. cit., p. 10.
17 Cfr. G.M. Calvino, op. cit., p. 12: «Usc. Bassina quella voce, maestro Fabio! Riflettete con chi parlaste. Fab. Parlo con un... Usc. Con un ministro di giustizia».
18 Cfr. G.M. Calvino, op. cit., p. 25.
19 Cfr. G.M. Calvino, op. cit., p. 18.
20 Cfr. G.M. Calvino, op. cit., p. 37.
21 Cfr. G.M. Calvino, op. cit., p. 38.
22 Cfr. G.M. Calvino, op. cit., p. 41.
23 Cfr. G.M. Calvino, op. cit., p. 63.
24 Cfr. G.M. Calvino, op. cit., p. 60.

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