Giuseppe Marco Calvino


opere teatrali


novelle in versi


testi inediti


la copertina del libro Il secolo illuminatissimo

la copertina


Salvatore Mugno - scrittore

Salvatore Mugno
scrittore



Ringraziamenti:
Renato Alongi
Renato Lo Schiavo
Renzo Porcelli
Sergio Marchingiglio

Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

Giuseppe Marco Calvino - Il secolo illuminatissimo
a cura di Salvatore Mugno

Busto di Giuseppe Marco Calvino presso la Cattedrale di Trapani
Busto di Giuseppe Marco Calvino presso la Cattedrale di Trapani

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I. CALVINO EDITO

1. POETA “PORNOGRAFO” E TRADUTTORE

Se del Calvino sia prevalente, se non addirittura esclusiva, l’icona di poeta “pornografo” - espressione su cui bisognerebbe riflettere e intendersi - le ragioni, non prive di fondamento, a nostro avviso sono, essenzialmente, da ravvisare nell’abissale gap qualitativo tra la sua produzione poetica edita in vita e le postume Scherzevoli (a cui si lega ancora oggi la giusta fama) nell’ignoranza della gran mole di manoscritti rimasti sepolti nell’oblio per quasi due secoli. Si può, peraltro, sin da adesso osservare come, in questo caso, il “tempo” abbia, per ciò che dipende da esso, egregiamente assolto alla sua funzione di filtro e di selezione: ciò che dell’opera calviniana è sopravvissuto, è ragionevolmente, quanto meritava di resistere. E di fronte a due secoli c’è poco da opinare! Se, poi, l’autore trapanese abbia goduto di scarsa e circoscritta gloria, questo è argomento differente.
L’attuale sprigionamento di una cospicua parte dei suoi inediti teatrali e narrativi in versi, dovrebbe consentire il consolidamento e il rilancio della sua “fortuna” letteraria e, insieme, un notevole ampliamento delle possibilità di apprezzare il suo lavoro artistico.
Una scorsa alle edizioni calviniane ci pare un necessario viatico alla progressiva riscoperta di quest’autore.
Il Calvino ventitreenne delle Elegie (1808), è poeta dagli accenti cupi e dolenti, dal sapore adolescenziale, che canta La lontananza dal perduto amore, con tutto il corollario di tormento, mestizia, pena, lutto e desiderio di morte.1
Il componimento, per i suoi toni accorati e sinceri, sembrerebbe rispecchiare avvenimenti personali: un “estremo addio” da parte della ragazza amata, una sua drastica uscita di scena.2
Insieme al dominio metrico (senza soverchio artificio scorrono le terzine di endecasillabi, secondo lo schema ABA - BCB - CDC), di questo primo libretto calviniano è da rimarcare, a nostro avviso, il tema della grave, forse intimamente definitiva frattura dell’ideale amoroso: malgrado la generosità con cui il poeta conchiude il suo struggimento per Filli,3 s’intuisce che egli non amerà più allo stesso modo, che l’incantesimo è rotto.
Di carattere celebrativo e di fragile tempra risulta, poi, una serie di sonetti, odi, canzoni, indirizzata a sovrani (da cui, peraltro, si certifica la fede monarchica dello scrittore), ad autorità politiche, alla Vergine, a poeti, filodrammatici, amici e a varie altre figure: si tratta, quasi sempre, di scritti privi di autentica energia.
A tale tipo di produzione Calvino indulgerà costantemente, ricavandone, al più, utili esercizi di stile e qualche sparuto godibile verso.
Da ricordare è L’industria trapanese (1825), non tanto per il suo intrinseco valore, ma per il contrappunto che se ne può ricavare rispetto ai testi coevi, poi confluiti nelle Scherzevoli.
Si tratta di un’opera municipalistica, campanilistica, di esaltazione dei «patrj pregi», mummificata dalla retorica. È il Calvino peggiore, quello encomiastico, azzimato, “pubblico”, che con toni epici, virgiliani, celebra l’operosità, l’ingegno e la civiltà dei suoi concittadini.4
Ma del Drepanese guerriero e nauta, al contempo – nelle segrete e postume Scherzevoli - nota e stende le miserie, la codardia e le bassezze: si può supporre quale sarcasmo dovesse intimamente agitarlo nel dare alle stampe quelle sperticate lodi!
Di qualche interesse ci sembrano, tuttavia, le pagine dedicate alla descrizione della mattanza e - forse un po’ meno - alla pesca del corallo.
Sono brani a cui potrebbe aver attinto il Marrone degli anni giovanili, nel breve apprentissage trapanese: si avvertono, in ogni caso analoghe radici nell’opera del crepuscolare siciliano.
La principale opera poetica pubblicata dal Calvino sono i due tomi delle Rime (1826): una miscellanea di testi - alcuni dei quali già apparsi isolatamente - tra cui occorre spigolare non poco per cogliere qualcosa di notevole.
Dal primo dei due volumi si potrebbero segnalare le odi All’ottavo lustro (utile per la biografia intellettuale e umana del poeta che, con qualche grazia, fa il punto sui suoi quarant’anni), La pace dell’animo (agili quartine di ottonari, in cui l’autore riconosce la vanità di ogni affanno, innalzando a sommo bene la quiete), Le Forosette (ironico commento al suo declinante appeal sulle giovani donne), L’estate, Per graziosa attrice (in pregevoli quinari), Il genio malefico - A Nigella (in cui inneggia alla bellezza e all’insidia della donna, descritta come ruina).
Di superiore fattura ci sembra il secondo volume.
Amore in Liceo è un lungo apologo in cui si mette alla berlina il mondo dell’istruzione, alternando strofe pedantesche e arzigogolate a momenti lievi e giocosi. Vi si immagina che Cupido, incuriosito dagli echi del progresso umano nel secolo decimottavo, si aggiri in un istituto scolastico per verificare se anche l’Amore si sia evoluto tra gli uomini...
Il “capitolo” Il teatro comico di provincia (A’ zerbini filodrammatici) è, a nostro avviso, il migliore dei testi della silloge e, probabilmente, il più riuscito tra quelli editi dallo scrittore trapanese. Ce ne occuperemo quando tratteremo della sua produzione teatrale.
Della medesima raccolta è ancora da ricordare il testo Al Cavalier Tanaccio Quinzio Papanelopoli (di limitato valore artistico, ma interessante per i riferimenti biografici e per la critica dei costumi dell’epoca): il poeta rifiuta l’invito dell’amico a trascorrere una serata di sollazzo, sia per evitare ulteriori dissapori con la propria moglie, che per sottrarsi alla miseria culturale della comitiva.5 Riconosce, al contempo, con qualche punta di sarcasmo, la propria inettitudine alle fatue cerimonie e alle galanterie, e il timore di finire sfidato a duello per un nonnulla, per via dei propri modi poco aristocratici.
Si confessa, inoltre, inadatto al gioco delle carte, al ballo, al canto, alle tenzoni e agli amoreggiamenti.
Tra le righe, insomma, si coglie un Calvino sinceramente stanco della società del suo tempo.
Non privi di eleganza e mordacia risultano taluni Epigrammi, di lontana ascendenza marzialiana, spicci e artefatti talvolta, amari e graffianti talaltra:6 «Massima soda:/ vuoi lode? Loda».7
Constano, tutto sommato, di piacevoli arguzie, di passatempi, in cui il Calvino manifesta perfino spirito pubblicitario futuristico ante litteram.
Dalle Rime sono ancora da notare Al gioviale amico Filippo Lisaval (in cui si accenna alla «Città nojosa»), il divertente sonetto Il poeta baccante (memore dei virtuosismi del Bacco in Toscana del Redi), impegnativa composizione in lode del bere, fitta di notazioni e citazioni sull’argomento, ricca di una dottissima teoria di vini siciliani e, segnatamente, trapanesi e marsalesi.8
Ma il vero capolavoro del Calvino sono, senza dubbio, le Poesie Scherzevoli, alla cui prima uscita nel 1900, sono seguite altre tre edizioni pressoché integrali (1969, 1976, 1990) e un florilegio in lingua americana (1997).
Basandosi sulla sola produzione calviniana edita vivente l’autore - anche a tener presenti le pregevoli traduzioni in siciliano dei classici greci, le opere per il teatro e alcuni sparsi lavori poetici - non si riuscirebbe ad esprimere un’idea veritiera del suo lavoro complessivo.
Sebbene, qua e là, scintilli il Calvino maggiore (il poeta de Le Scherzevoli e delle opere teatrali e delle narrazioni in versi inedite), si può ben dire che lo scrittore autentico sia rimasto a lungo celato tra le sue carte. Alcuni suoi testi, tra i più robusti e arditi, sarebbero già circolati mentre lui era in vita, ma guardando a quanto egli diede alle stampe e non tenendo conto di ciò che aveva lasciato nei “cassetti”, non si potrebbe sostenere che il Calvino intendesse, sia pure reconditamente, sfidare la sonnolenta e arcaica cultura siciliana del suo tempo.
Egli - forse per “quieto vivere”, per convenienza sociale, per salvaguardare la rispettabilità propria e della propria famiglia, per non incappare nelle severe maglie della censura e, magari, in pastoie giudiziarie; o anche perché, a sua volta, troppo immerso nella melmosa e stantia atmosfera culturale dell’epoca - non aveva corso il rischio della pubblicazione (alla macchia, s’intende) dei suoi lavori più spinti e osé.
Sarebbe, comunque, probabilmente ingeneroso addebitargli un eccesso di prudenza, se è vero che anche l’odierna società “liberata” fatica a sopportare opere così esplicite.
L’interesse per la sua opera “pornografica” - prima che i movimenti anarchici trapanesi, nel 1900, si assumessero l’iniziativa di pubblicarla - era stato assai limitato o superficiale, se si esclude il penetrante saggio del 1895 scritto dal Rodolico, che, grazie alla “soffiata” di un suo amico, aveva potuto delibare quegli inediti.
Le riedizioni (integrali o parziali, e le relative traduzioni in italiano e in inglese per l’edizione americana) delle Scherzevoli succedutesi nell’ultimo trentennio, segnano il periodo di maggior fortuna dell’autore trapanese, circostanza che inequivocabilmente conferma il superiore rilievo di tale produzione “sommersa” rispetto a quella edita nei primi decenni dell’Ottocento. Malgrado la rinnovata attenzione per il Calvino non abbia varcato lo Stretto e si continui ad ignorarlo in antologie e repertori di genere “erotico” e satirico, tale repechage manifesta la propria singolarità: il Novecento, per quanto a noi risulti, ha restituito pochi poeti e commediografi ottocenteschi siciliani (ad esempio Giuseppe Rizzotto) offuscati dal tempo. Abbiamo assistito a recuperi su altri fronti - demopsicologici, narrativi, glottologici, storiografici - ad esempio con Serafino Amabile Guastella, Emanuele Navarro Della Miraglia, Alberto Favara, Michele Palmieri di Micciché, Corrado Avolio e molti altri, gran parte dei quali inclusi in una prestigiosa collana di Edizioni della Regione Siciliana.
Come ormai attestano i più qualificati studi sulla sua opera principale, il Calvino non si può affatto circoscrivere nell’etichetta di poeta “osceno”, “pornografico”, “triviale”.
Egli è stato un valido traduttore in siciliano, un ragguardevole commediografo in lingua, un brioso narratore in versi e, soprattutto, un ottimo poeta vernacolare, che si è servito di tematiche e terminologia licenziose per rappresentare ogni aspetto della Trapani e della Sicilia del suo tempo, mostrando di meritare, a nostro avviso, una collocazione di tutto rilievo - insieme ai Meli, Tempio, Verga, Capuana, De Roberto e pochi altri scrittori – nel Sette-Ottocento letterario siciliano, ma anche uno spazio non angusto nel filone erotico-sociale della poesia italiana di tutti i tempi.
L’autore trapanese forse non aveva avuto abbastanza fiducia in se stesso, astenendosi dal decidere in modo netto tra accademismo, arcadia e attardate mitologie, da una parte, e innovazione, illuministica adesione, scontro aperto e diretto con l’indigena cultura contemporanea, dall’altra; o, forse, con accortezza, aveva valutato di proiettare oscuramente nel futuro quel segreto e inconfessato tesoro poetico.
Se contraddittoria rimane la sua figura, così non è per ciò che della sua opera si appresta a compiere, felicemente, duecento anni.
Ulteriori ricerche tra gli inediti precipuamente poetici del Calvino, potrebbero sortire qualche utile sorpresa.
Nei testi editi in vita, invece, nei casi migliori si rileva una commistione di modernità di idee e di moduli espressivi antiquati, superati.
Ciò sembrerebbe, in realtà, il riflesso del conflitto interiore del poeta, dibattuto tra l’ufficialità ipocrita e la sotterranea, riservata verità.
Doveva causare non poca sofferenza, al poeta, tale scissione, il velo entro cui doveva andare mascherato. Il “buon padre di famiglia” e il “buon cittadino” nascondevano un onestissimo ribelle, un uomo incatenato nel soppalco di un tempo formalista e bacchettone.
Le Scherzevoli sono un’ottima guida all’esplorazione dell’animo siciliano di allora non meno che di adesso.
Ne La meta a lu sticchiu, col pretesto della figa, si cura di stigmatizzare il tartassamento dei sudditi da parte del Consiglio civico; si occupa dei poveri pescatori e dei contadini; si scaglia sui politici corrotti, arrivisti e ignoranti, presi soltanto dai propri interessi, a costo di scardinare le regole dell’economia.
Il Calvino si appella alla cosiddetta legge della domanda e dell’offerta e dimostra di ispirarsi ai principi liberisti del diritto di proprietà e del divieto di monopolio, denunciando che costringere la gente alla povertà comporterebbe un incremento della prostituzione. Tutto ciò emerge senza alcuna enfasi dai versi del poeta, scevri da banalità e ridondanze, armoniosi nel lessico e nella musicalità.
A la Bacicia celeberrima buttana è un inno alla vita - con al centro la celebrazione del sesso femminile - che non sarebbe che un «futtisteriu eternu».
In Lu triunfu supra lu munnu, la carni e lu demonio l’ironia si indirizza alla città falcata («(...) punta di ‘na citati fatta a fauci/ ‘na cità fida, invitta e benemerita./ (È lodi chi si merita) (...)».9
In una coreografia funeraria da “Boschetti Mormoranti” alla Waugh,10 una selva di indigeni personaggi, a suffragio dei cari estinti, si diletta nella “masturbazione dei defunti”: tale sarebbe stata la vetta toccata dalla dabbenaggine, dalla sterilità, dall’inettitudine - e, se si vuole, dalla sublime infingardaggine e dal fariseismo - di poeti, marchesi, cancellieri, frati e donnette dell’amena ville...
Sulla linea della cosiddetta letteratura libertina, il nostro poeta individua nel sesso il vero motore dell’umanità (L’omu a dui testi).
La filosofia underground del mondo sarebbe di godere nascostamente simulando santità. In un turbinio gergale rarissimo, Calvino si fa beffe dei versificatori impettiti e creduloni: soltanto la forza dell’illusione e della finzione può salvarli dal ridicolo (Lu pueta ‘mbriacu ‘ntra lu ‘nchiudituri).
Sullo sfondo di lussureggianti affreschi d’ambiente, l’autore raffigura una molteplicità viva e pullulante di umane scelleratezze.
Lu seculu decimunonu si può accreditare tra i classici del sarcasmo contro i facili e sprovveduti elogiatori degli epocali progressi e apparentarsi a certe satire del Belli o, più recentemente, del Trilussa.
Non meno robusta la “cicalata” A la casina sanitaria, un intenso atto unico in cui nessuna istituzione cittadina viene risparmiata dalla burla: le autorità addobbate di titoli onorifici, l’Accademia della Civetta (di cui l’autore fu membro) che elargisce «diploma fradici»,11 i maldestri custodi della biblioteca e della pinacoteca cittadine...
Al disprezzo per l’ignobile esercizio del “potere”, Calvino non disgiunge quello per i suoi concittadini, proni, arrendevoli o calcolatori pur di conseguire una “posizione”, un impiego rispettabile,12 a costo di una propedeutica e tattica “emigrazione intellettuale”, pur di poter poi appropinquarsi ai gabinetti del comando.
Una piccante postilla di poetica introduce la sezione della silloge dedicata “a li veri filosofi”,13 dove vita, linguaggio e poesia si fondono mirabilmente, rovesciando tabù e meschine pruderie (Lu futtituri filosufu, Lu filosofu buzzarruni, Lu filosufu garrusu).
Cimentandosi in una ricca gamma di metri e di registri, con una portentosa perizia tecnica, il genio umano e letterario di Calvino può, ineditamente, masturbarsi sulle ali del proprio ingegno e guadagnarsi una copula universale (Lu filosufu minaturi).
I calviniani ricorsi alla “filosofia” appaiono, dunque, ben lontani dagli astuti espedienti letterari e dai titoli ad effetto: rispecchierebbero, fattualmente, un “pensiero forte”, l’irrefrenabile, vitalissima energia dell’esistenza. In Lu filosufu pintutu, con un ironico procedimento à rebours, fingendo l’esaltazione del retour à l’ordre coitale e coniugale, non fa che screditare, ancora una volta, le false credenze, le ipocrisie e l’insensatezza di usi e costumi sessuali sedicenti pudichi e ammantati di buone maniere...
La minata di un palchitteri si abbatte sullo squallore del teatro San Gaspare e sulla marmaglia dei suoi frequentatori. Notevoli anche le ottave de La musa ‘nsautu (La musa in calore) in cui il poeta, ormai esperto della vita e dell’arte, certifica quanto sia da sciocchi liricamente incensare potenti e damerasse, quanto vanitoso e ingannevole sia adulare in versi gli irriconoscenti e avari redditieri... Meglio cantare e raccontare la vita vera, con i suoi gustosi conversari.14
Il poeta trapanese manifesta, frattanto, estrema avvedutezza e modernità in fatto di scelte linguistiche: indipendente da mode ed epigonismi, originale negl’intenti, strepitoso nei risultati, rivendica - opere alla mano - la sicilianità, la peculiarità, l’etnicità, come oggi si direbbe, della sua produzione. Una specificità che, considerata l’epoca di collocazione, sa di novità e di legittimo orgoglio nella letteratura isolana contemporanea. In essa, allargando anche lo sguardo agli inediti raccolti in questo volume, si ravvisano alcune radici della grande letteratura siciliana dell’Ottocento e del Novecento: non pochi topoi, atmosfere, e personaggi calviniani – assestati, accresciuti e perfezionati anche in virtù dei mutamenti storici e sociali – si ripropongono in Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, Brancati, Sciascia.
Geniale la visioni di L’umbra di mastru Maru o sia lu cuscusu trapanisi, in cui si sbeffeggia l’indigena esterofilia, la schizzinosa e prevenuta ostilità verso le produzioni locali, ad eccezione, s’intende, del cuscus (che, poi, non è manco di origine trapanese!).15
E celebrando la pietanza araba, il Calvino deride la scienza e i dotti dell’epoca (che tenzonano sui pentoloni per cuocerla: querelle mai sopita tra i nostri culinari intellettuali!), denuncia la crudeltà e la superstizione popolare... Operazione che egregiamente dilaga ne La nascita di Paulu, dove un consulto di medici sciorina la propria sconfinata ignoranza al fine di discernere la strana natura di un neonato, mentre il poeta si abbandona alle invenzioni letterarie e agli artifici vernacolari.
Lezione eccelsa di umanità trae l’autore trapanese anche dalle Lodi di lu cantaru, il volgarissimo cesso.
La villiggiatura celebra uno degli intoccabili riti e miti indigeni, isolandone alcuni bacilli.
Ne La morti di la batissa si assiste alla prevalente astuzia della religiosa che, avvezza alla masturbazione, riesce a sfuggire al dito indagatore dell’ingenuo angelo, portinaio del paradiso.
In Carlu a lu ‘nfernu o lu novu Orfeu siamo di fronte a un caso di velata necrofilia.
Ma si ritorna pienamente nei costumi del popolo trapanese e siciliano nella cicalata Lu cungressu di la Deputazioni di lu Cafè di la Concordia (catalogo dei vizi degli avventori del ritrovo: pretenziosi, portoghesi, giocatori di zecchinetta e bàzzica, scrocconi, furbastri da tre soldi, beoni...), nel “fattu storicu” de La statua bicipiti o lu gattu e Saturnu (con atmosfere bulgakoviane da Il Maestro e Margherita, il gattone accovacciato, come un turbante, sulla testa della statua di Saturno collocata nella fontana del Corso, s’erge a simboleggiare il “cervellino” dei governanti...), nel dialogo La trumma prementi. Trapani e Saturnu, negli ottonari de La lastima di lu sindacu tormentatu da un varveri e in vari altri componimenti della raccolta, sebbene talvolta con qualche discontinuità di fattura... Spiccano, nella parte conclusiva del volume, Lu ‘nglisi o sia La metempsicosi; Aloisi a la Bacicia; Li cugghiuna; La matina (col sano suggerimento di fare all’amore a inizio di giornata, acquisizione fatta propria anche dalla moderna sessuologia); la brancatiana La donna di l’Isula (poi trasposta, con delle varianti, in versione teatrale) il cui finale, con l’anziano protagonista vittima, per amore, del crepacuore, ci ricorda Lu fattu di Bbissana del Di Giovanni; Lu Ganimedi rapitu (saga di amorazzi sodomitici tra divinità).
L’animo nativo, qui, ha certamente uno dei suoi massimi conoscitori e cantori.
Della produzione edita vivente il Calvino, le “libere traduzioni”, come egli stesso le definiva, furono la parte più apprezzata.16
Si tratta, invero, di lavori non privi di qualità e assai utili per la comprensione dell’intera opera vernacolare dello scrittore siciliano.
Di la Batracumiumachia di Omeru, apparsa nel 1827, ripropone, in terzine di endecasillabi (nella successione ABA-CDC-DED-EFE), la celebre guerra dei sorci e delle rane con gran copia di trovate lessicali e sintattiche, pervenendo - con modi briosi e divertenti - a un testo di gusto recitativo e di esiti notevoli.
Opera più vasta e complessa è la versione, in endecasillabi e ottonari, Degl’Idillj di Teocrito, del 1830, dedicata al generale trapanese Giovan Battista Fardella. Vi ritroviamo un Calvino attento al linguaggio non meno che alla poesia, eppure come rivolto all’indietro, con timbri quasi nostalgici. Se la resa è, in gran parte, accurata, ben riuscita, adeguata ai moduli idillici e bucolici, non si può, d’altro canto, non ravvisarne la meccanica un po’ fredda, rattenuta e, talvolta, in intima contraddizione (laddove, ad esempio, il pronome personale io si riscontra nei corrispondenti iò, eu, ju, di varia provenienza isolana). Ne risulta un dettato, non di rado, di scarso mordente, compresso, sospinto su un tracciato piuttosto rigido, sebbene vivificato da anelito onesto e sincero.
Ma questa pubblicazione calviniana offre motivi di particolare interesse per via della nota introduttiva del traduttore, in cui vengono enucleate alcune delle idee guida del fare poetico del Calvino. L’autore trapanese sostiene che «ogni lingua, qual più qual meno, è capace di buona Poesia»17 citando gli elogi del Parini alla lirica in dialetto milanese del Tanzi e rimproverando ai Novellisti fiorentini di essersi doluti che il Meli scrivesse in siciliano. A quella ottusità, a quei pregiudizi, il Calvino ribatte con savoir faire: «(...) se da un canto non s’intende da’ Toscani la lingua Siciliana, da’ Siciliani s’intende il Toscano, e si cole e si scrive (...)»,18 malgrado quel «peccato in verità sente di un certo disprezzo per la Sicilia».19
Il nostro scrittore passa, quindi, a riconoscere i meriti di alcuni importanti poeti isolani (Meli, Veneziano, Rau, il trapanese Bonajuto), mostrando di possedere una sua concezione dell’uso del vernacolo siciliano e di essere pienamente dentro alla migliore cultura del tempo: «(...) il nostro grazioso idioma è capace di vera Poesia. E chi dal fuoco delle Muse animato sa modularlo nel verso, dirà come facile ad ogni stile si presta; non mancandogli né forza né grazia, per semplicità, naturalezza, eleganza, delicatezza».20
Il Calvino pone, inoltre, una distinzione linguistica: tra dialetto (la peculiare parlata delle varie comunità) e idioma (la comune espressione siciliana, non contaminata dalle inserzioni e dagli innesti dovuti alle varie dominazioni), dichiarando di volersi attenere al primo, rigettando, dunque, quella che oggi va correntemente sotto il nome di koinè.21
In ciò il poeta si troverebbe rassicurato dagli esempi illustri che non manca di citare.22
Riteniamo di grande interesse tali enunciazioni dell’autore trapanese, perché ci danno conferma di un’adozione avveduta e matura del proprio linguaggio, oltre che di una consapevolezza di respiro nazionale sul suo fare letterario. Le notazioni calviniane risultano estremamente proficue a fronte della sua maggiore opera poetica postuma, ma anche per la comprensione delle sue opzioni etniche, “provinciali”, territoriali nelle opere inedite qui recuperate. Dalle altre notizie offerte dall’autore in esergo, apprendiamo della sua scarsa familiarità con la lingua greca e del percorso seguito nella sua traduzione teocritea, mettendoci al corrente delle sue fonti e dei suoi intenti, tra i quali quello di tentare - col conforto del Cesarotti - una “parafrasi”, una versione “creativa”, piuttosto che fedelmente algida, metronimica. Dichiarazioni e confidenze che apprezziamo, se è vero che il plagio è un male assai diffuso, da sempre.


NOTE

1 «Chi creduto l’avria, di un fido amore,/ per cui tanti sospiri io sparsi al vento,/ esser Premio l’affanno, ed il dolore!» (cfr. G.M. Calvino, Elegie, Trapani, Sani, 1808, p. 3).
2 «Tale la vidi un dì; tutte le cose/ mutaro allor per me tosto di aspetto,/ e di giulive diventar dogliose» (cfr. G.M. Calvino, Elegie cit., p. 7).
3 «Possa sol Filli mia, numi gioire:/ doglia alcuna non turbi il suo contento;/ e sarà pago allora il mio desire» (cfr. G.M. Calvino, Elegie cit., p. 11).
4 «Oh santa Industria! Generosa Gara!/ Spirto di Società! (...)./ Di Drepano le salde invitte mura (...)» (cfr. G.M. Calvino, L’industria trapanese, Trapani, Mannone e Solina, 1825, pp. 10 e 12).
5 «Linda e galante la moderna razza/ Semplicitate ingenua chiama zotica,/ Filosofi e Poeti gente pazza./ Tu, cui è galanteria parola esotica,/ Vuoi cimentarti fra i brillanti crocchi?/ Poesia?... più dell’oppio assai narcotica./ Musica? avrai un bel dir, non gl’infinocchi/ Con quel tuo Krommer Haydn... già fremono,/ Ti guatano i zerbin con tanti d’occhi./ Rossini... Oh si! Poiché a sprezzarlo temono,/ Autor di moda; ma, col chitarrino/ Da due bocchin che i motivetti spremono» (cfr. G.M. Calvino, Rime, Trapani, Mannone e Solina, 1826, vol. II, p. 61).
6 Si vedano, in particolare, gli epigrammi I, II, III, V, VI, IX, X, XII (cfr. G.M. Calvino, Rime cit., pp. 67-70). Nel manoscritto calviniano n. 343 tali brevi scritti sono racchiusi sotto il titolo Scherzi per confettura.
7 Si tratta dell’epigramma XII (cfr. G.M. Calvino, Rime cit., p. 70).
8 «Oh mio Drepano! Oh quai vini!/ Vantin pure i tuoi coralli,/ I salini tuoi tesori,/ Gli alabastri effigiati,/ L’ambra incisa, e i bei lavori/ In conchiglie, ed in avorio,/ Io, per me, più assai vi glorio,/ Curvi lidi saturnini,/ Pe’ possenti - ardenti vini (...)» (cfr. G.M. Calvino, Rime cit., p. 111).
9 Cfr. G.M. Calvino, Lu dimoniu e la carni. Poesie epicuree contro la falsa morale di preti, sbirri, uomini politici e amministratori ladri, Catania, Tringale, 1978, p. 29.
10 E Waugh, Il caro estinto, Milano, Bompiani, 1995.
11 Cfr. G.M. Calvino, Lu dimoniu e la carni cit., p. 62.
12 Cfr. G.M. Calvino, op. cit., p. 64: «Minchiuni! Impiegu novu/ Cu tutti sti sequeli!/ Cazzu! Ti situasti./ La juta appi l’effettu:/ dì la secunna cammara/ passi a lu gabinettu?».
13 «A quanti portano scritto in fronte me ne fotto, dedico e consacro questi miei versi. La casta matrona, l’innocente verginella, il giovane sempliciotto possono senza scandalo accostarsi ad ascoltare la chiarezza dei sentimenti dei miei filosofi, i quali, seguendo la sola natura, vi dicono pane al pane e vino al vino. Stiano lontani quei fottuti iettatori collitorti che arricciano il naso alle parole cazzo, fica e culo, mentre poi in silenzio e nell’ombra, in un cacatoio di casa, dentro una cella romita, stanno immersi nel fango fino alle ciglia nel traffico della fica, del cazzo e del culo. A quanti dunque considerano il cazzo, la fica e il culo, come doni preziosi della natura benefica, e che di queste potenze usano lietamente, come lei stessa ci insegna, io mi rivolgo, e mi aspetto un sorriso di cuore che mi faccia buon augurio. - Fottetevi» (cfr. G.M. Calvino, Poesie scherzevoli, presentazione di Virgilio Titone, saggio introduttivo e traduzione a fronte di Gianni Diecidue, Castelvetrano, Mazzotta, 1990, p. 116).
14 «Accademie, discorsi... e fottetene:/ e cantiamo di fiche, di culi, e poppe./ Sti sonetti a corona?... invano incensati./ Si busca alla fine?... un cazzo in culo./ L’hai per ricordo una fottuta tabacchiera?/ È da un anno che adulo adulo adulo./ Se dico bella ad una bella campagnola/ posso sperare che mi dia culo.../ Ma dagli elogi a potenti, a signorazze/ che ne guadagni?... ne guadagni cazzi./ Perciò torniamo al felice stare:/ sti quattro giorni di vita che rimane,/ come ci vengono li dobbiamo accettare./ Dopo questa vita che ce ne fottiamo?/ Se non ce la spassiamo a coglionare/ vedi, coglionati resteremo. (...) Quella grevia musa con il toscaneggio/ che vada a farsi fottere una volta;/ via, vientene tu che non ti fingi.../ Che tosco fosco?... la tua lingua sciolta,/ quel fioretto di taverna e fritto,/ gli occhi che strizzi con civetteria?/ Che allegra cuore quella fica spassosa!/ (...). Noi diciamo pane al pane e vino al vino/ nelle altre nazioni non è così./ Sentite un francese damerino:/ Donemuà la fes, gardè la vì./ Mulier dac mihi vulvam in latino,/ c’è una bagascia che può dire sì?.../ Qui da noi è bello: dammi la fica,/ gira sto culo, sfodera il capezzo./ Con sto linguaggio, con st’espressione,/ la poesia diventa un’altra cosa!/ E se vuoi acquistare opinione/ dici alla fica fica in versi o in prosa./ Lascia stare le altre nazioni,/ che devono per fottere, non hanno posa,/ sto parlare avviluppato... Qua in Sicilia/ male parole ne trovi a centomila» (cfr. G.M. Calvino, Poesie scherzevoli cit., pp. 180 e ss.).
15 «Curri, abbannuna ssa me patria ingrata,/ Unni sempri hannu sorti li minchiuni,/ Li gran cantari mei pinti a sguazzettu/ Non vannu quantu quilli del Burgettu! (...). Vegna di fora e feta: ‘un c’è chi fari/ Lu stissu mali piaci foresteri:/ Laudi del mal francese, ardiu stampari/ Certo Siracusanu Cavaleri./ Dintra di ‘na buttigghia puoi pisciari,/ E si certu truvari lu misseri,/ Basta un sigillu di cira di Spagna,/ E ci affunci darrè: Bordò, Sciampagna. (...). Vegna di fora chi tuttu è accettu./ Ccà ci nn’è scecchi di bellu aspettu?/ Puru, chi opera la fantasia!/ Si voli un sceccu?... ‘mPantiddaria./ Cristi nn’avemu, cu corna poi,/ S’iddi lodati, quantu li voi?/ Ma non signuri, dda simpatia/ Li crasti vegnanu da Varvaria» (cfr. G.M. Calvino, Lu dimoniu e la carni cit., pp. 130-131).
16 Inedita rimane la traduzione calviniana delle Odi di Anacreonte, conservate - in buono stato - nel manoscritto 408 della Biblioteca Fardelliana di Trapani.
17 Cfr. G.M. Calvino, Degl’Idillj di Teocrito. Traduzione libera in siciliano, con una nota introduttiva del traduttore, Trapani, P. Colajanni, 1830, p. I.
18 Cfr. G.M. Calvino, op. cit., p. III.
19 Ibidem.
20 Cfr. G.M. Calvino, op. cit., pp. III-IV.
21 Cfr. G.M. Calvino, op. cit., pp. V-VI: «Si chiami pur dialetto: avrà il pregio di essere il parlare della natura: che il fare i dialetti alla natura si aspetta, e non all’arte. (...). Con tal proposito divisai eseguire questa mia qualunque siasi traduzione, invaghito del puro dialetto nostro, che facile ho veduto coll’esperienza come a’ varj argomenti si presta (...). Ben è vero che ho dovuto rinunziare alla nobile ambizione di esser gustato là dove il nostro dialetto non corre: ma con accortezza somma vi han rinunziato valorosissimi Poeti (...)» (cfr. G.M. Calvino, op. cit., pp. V-VI).
22 «Si cerca invano nella lingua illustre comune, non parlata da nissun popolo d’Italia, ma fiorente solo negli scritti de’ letterati, si cerca invano la vaghezza degli idiotismi, e lo spirito di tanti altri modi, e degli atticismi, di che abbondano i dialetti. Ed il Porta, ed il Lamberti co’ lepidissimi loro versi, l’uno nel dialetto milanese, l’altro nel veneziano qual incanto non producono? Il Berni, il Mauro, il Lasca nel dialetto fiorentino scrivendo, a quanta fama non pervennero, a costo della dura condizione di non esser perfettamente gustati finché in un breve spazio di paese?» (cfr. G.M. Calvino, op. cit., p. VII).

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