La civiltà del pane
Il pane è più antico dell'uomo, recita un proverbio albanese. Il detto non trova però eccessivo credito nemmeno in chi lo cita: «scaturisce da un sentimento poetico, ma errato, della storia», taglia corto Heinrich Edward Jacob.1 Non si può invece liquidare sbrigativamente la pur leggendaria storia tramandataci da Plinio il Vecchio: «Cerere trovò il frumento, mentre prima si viveva di ghiande. Lei stessa insegnò a macinare e a fare il pane in Attica e in Sicilia: per questo fu tenuta per dea».2
Si tratta di una ricostruzione che la dice lunga sui contenuti ideologici della più avveduta cultura classica che aveva fatto del pane un segno forte della civiltà, anzi una marca di riconoscimento che l'uomo civile ostentava ai barbari. In buona sostanza, se il pane era «veramente un cibo-simbolo, uno statuto ideologico prima che un alimento reale»,3 non poteva essere altro che dono di una tra le più amate divinità del pantheon romano. La scelta di Cerere, nella quale i cittadini dell'Urbe identificarono la dea greca Demetra, era quindi quella giusta, obbligata persino, a giudicare da com'erano cambiate le abitudini alimentari romane in seguito ai primi contatti con la Magna Grecia e, soprattutto, dopo il 241 a.C., quando la Sicilia divenne provincia e granaio di Roma.
Nulla ci dice però Plinio sull'origine della panificazione nel mondo. Ora, se per pane intendiamo quel prodotto alimentare ottenuto dalla cottura in forno di un impasto di farina, lievito e (anche se non necessariamente) sale, il primo problema che si pone a chiunque voglia ricostruirne la storia è di fissare il momento iniziale della coltivazione dei cereali e soprattutto del grano, materia prima per antonomasia della maggior parte dei panificatori del pianeta. E questo è un problema ancora irrisolto, per quanti sforzi abbiano fatto in tutti i tempi gli storici. «La storia - nota opportunatamente Hanri Fabre - celebra i campi di battaglia dove incontriamo la morte, ma sdegna di parlare dei campi arati dei quali viviamo; sa i nomi dei bastardi di re, ma non può dirci l'origine del grano. Queste sono le vie dell''umana pazzia».4
Eppure il consumo dei cereali accompagna l'uomo da tempo immemorabile. Scandisce la nascita, lo sviluppo e il declino delle prime civiltà. Gli stessi Cinesi si sono sempre nutriti di cereali, se è vero che «conoscevano il pane ventotto secoli prima dell'era cristiana e lo abbandonarono per il riso forse in seguito ad invasioni di popoli che lo consumavano in luogo del pane».5 A testimonianza di questa loro antica cultura alimentare basti ricordare che erano soliti domandare il frumento e l'orzo a Hou–tzi, il Principe delle Messi.6 Ma è soprattutto nell' area del Mediterraneo e nelle regioni limitrofe che acquista maggior spessore e più consistenza la vicenda dei cereali, il cui controllo diviene strumento di prestigio e di dominio politico e, addirittura, motivo fondante dell'identità dei popoli. Qui, l'alba della storia «coincide con l'invenzione dell'agricoltura, rivoluzione neolitica della quale abbiamo appreso da poco, grazie ai metodi di datazione al radiocarbonio, che risale al 9000 circa a.C.», e che la sua diffusione copre vari millenni. «Tale grande cesura della storia dell'umanità non si è dunque instaurata molto rapidamente. Il suo sviluppo, tuttavia, è avvenuto a partire da numerosi nuclei, più o meno collegati tra loro, e ha portato con sé i cereali - piante selvatiche che sfruttate per molto tempo allo stato naturale, prima che a poco a poco se ne iniziasse la coltivazione -, gli alberi da frutto, gli strumenti e le abitudini sedentarie».7 Ma in quale area furono addomesticati i primi cereali? Probabilmente «sui rilievi che delimitano il deserto della Siria o sugli altipiani montuosi dell'Anatolia e dell'Iran», nella regione, insomma, che gli storici chiamano «Mezzaluna fertile».8
Comunque siano andate le cose, è certo che alcuni cereali come il miglio, l'avena, l'orzo, il frumento, il farro nutrono l'uomo fin dalla preistoria. A questi si sono aggiunti nel periodo tardo classico la segala e, dopo la scoperta dell'America, il mais o granoturco. La storia del riso è un caso a sé: coltivato fin dall'epoca più remota in Estremo Oriente, era conosciuto dal mondo classico, che però non lo utilizzava; ad introdurlo in Sicilia furono gli Arabi nel nono secolo. Il più antico dei cereali è probabilmente il «padre miglio»; da sempre il più apprezzato il grano ( triticum sativum ), perché particolarmente adatto alla panificazione. Rimane però ancora da capire quale sia la patria d ' origine di questa benemerita pianticella che Giovanni Pascoli definì «l'erba che ci mansuefece, il pane che ci affratellò».9
Il vescovo e scrittore greco Eusebio di Cesarea la identifica con la Valle dell'Eufrate, altri con quella del Giordano, Strabone con l'India, Tibaud De Bernard con l'Etiopia, «memore forse che se Giove andava a banchettare dagli Etiopi, il pane non vi doveva mancare»; aggiunge che da qui il prezioso cereale sarebbe poi pervenuto in Egitto. E Diodoro Siculo non manca di candidare la Sicilia a madre del grano primigenio. «Spontaneo in Sicilia fu trovato una specie di grano, il Triticum villosum; e il botanico Mattei avanzò l'ipotesi che il villosum attraverso le vicende della coltivazione possa essersi trasformato in sativum, data la tenue differenza tra loro intercorrente. La Sicilia quindi possiede titolo almeno dello stesso valore di molte altre regioni per proclamarsi culla del grano: questo sia detto senza pretendere di interferire nelle conclusioni rigidamente scientifiche dei competenti».10
Ora, al di là d'ogni «mito delle origini», sembra ormai assodato che tutti i popoli mediterranei, conoscono il grano fin dagli albori della loro storia, anche se incominciarono a panificare in tempi diversi. Su un'altra cosa sembra che non ci siano più dubbi, oramai: l'avventura della panificazione ebbe inizio nell'Egitto dei faraoni. Ma questo fu in qualche maniera messo in discussione da Erotodo, «il padre della storia». Si legge, infatti, nelle sue Storie :
Prima che Psammetico regnasse su di loro, gli Egiziani si ritenevano i più antichi di tutti gli uomini. Ma da quando Psammetico, divenuto re, volle sapere chi fossero i più antichi, da allora ritengono che i Frigi siano più antichi di loro e loro più antichi degli altri. Poiché Psammetico, pur facendo ricerche, non riusciva a scoprire nessun mezzo per sapere chi fossero i più antichi tra gli uomini, escogitò questo espediente: diede a un pastore due neonati, di gente presa a caso: doveva portarli presso il suo gregge ed allevarli lì nel modo seguente: con l'ordine che davanti a loro nessuno pronunziasse mai una parola: che se ne stessero da soli in una capanna isolata: che al momento giusto il pastore portasse loro capre, li saziasse di latte e si occupasse del resto. Psammetico fece e ordinò così volendo ascoltare quale parola avrebbero emessa per prima, una volta abbandonati i confusi balbettii. E questo avvenne. Infatti, quando furono passati due anni che il pastore si comportava così, mentre apriva la porta ed entrava, entrambi i bambini gli si gettarono ai piedi e pronunciarono bekos tendendo le mani. La prima volta sentì questa parola, il pastore stette zitto: ma poiché spesso, quando andava e si occupava di loro, la parola ricorreva frequente, lo rivelò al padrone, e su ordine del padrone, portò i bambini al suo cospetto. Ascoltatili anch'egli, Psammetico faceva ricerche su quali uomini chiamassero qualcosa bekos ; facendo queste ricerche, scoprì che i Frigi chiamavano bekos il pane. In tal modo gli Egizi, valutando anche in base a questa circostanza, ammisero che i Frigi erano più antichi di loro. 11
Il pane, il cibo più nutriente, simbolo dell'identità di molti popoli, era dunque conosciuto in Frigia prima che in Egitto, a detta di Erotodo. Perciò i Frigi erano più antichi degli Egizi. Rimane però un mistero per quali strani meccanismi due bambini, vissuti in totale isolamento e nutriti con latte di capra, avessero desiderio di pane e ne conoscessero addirittura il nome nella lingua dei loro antenati. Più credibile è, il grande storico greco, quando accenna ai pani di farro, (che altre fonti ci dicono esser destinati ai ceti meno abbienti) 12 o c'informa sulla preparazione di un tipo particolare di pane a base di semi di loto: dopo aver colto certi gigli, «li seccano al sole; pestano quindi la parte interna del loto, che è simile al papavero, e ne fanno pani cotti con il fuoco».13 Dallo stesso Erotodo apprendiamo, inoltre, che gli Egiziani impastavano il pane con i piedi: particolare, questo, mirabilmente confermato da un dipinto tombale noto come la panetteria regale , raffigurante i fornai della corte di Ramsete III (1198-67 a.C.).14
L'impasto del pane, vuole un curiosa leggenda, sia nato per caso, appunto in Egitto, in seguito ad uno straripamento del Nilo, la cui acqua bagnò le scorte di farina conservate nei magazzini del faraone. Anche il lievito è nato in Egitto, circa diciotto secoli prima dell'era cristiana. E Arnoldo Luraschi era pronto a dimostrarlo «con prove alla mano», non disdegnando però di raccontare una «storiella» non meno curiosa di quella dell'impasto: «una domestica egizia, per far dispetto alla padrona, avrebbe gettato nella pasta del pane il residuo della preparazione della birra, la quale provocò la fermentazione dell'impasto».15
Il vero è (e Luraschi non si dimentica di sottolinearlo) che gli Egiziani avevano abbastanza dimestichezza con i fermenti dei cereali con cui preparavano la birra, per non rendersi prima o poi conto che gli stessi princìpi potevano essere applicati alla panificazione. Conosciuto il lievito, scoprirono che la pasta lievitata non poteva esser cotta al fuoco vivo dei carboni, come avevano sempre fatto per millenni con la stiacciata (simile per forma e contenuto alla piadina romagnola). Né potevano ritornare all'antico metodo dell'essiccazione al sole: non funzionava e non avevano voglia, gli Egiziani, di ridursi alla stregua dei popoli che tuttora usano questi metodi arcaici. Fu perciò giocoforza che inventassero un nuovo tipi di forno.
Eressero pertanto costruzioni cilindriche di mattoni fatti di argilla del Nilo, costruzioni che si restringevano in alto a foggia di cono. Una tramezza ne divideva l'interno. La parte inferiore aveva un'apertura più larga per le forme di pane e per l'espulsione del gas. Quando stavano per fare l'infornata, essi toglievano la pasta inacidita dal suo recipiente, la salavano, la manipolavano interamente ancora una volta. Poi cospargevano di crusca il recipiente per la cottura, così che la pasta non lo toccasse. Distribuivano la pasta in fermentazione con una paletta, spingevano il recipiente nel forno, chiudevano lo sportello.
Familiari e amici stavano intorno a guardare, in un'ammirazione reverenziale. In quel forno stava crescendo una cosa che fino a quel punto era stato il prodotto delle loro fatiche, ma che ora era affidato a forze soprannaturali sulle quali essi non avevano controllo alcuno. Il padrone di casa ammoniva tutti a non aprire il forno prematuramente. Ma nessuno obbediva, la camera miracolosa veniva aperta di continuo e ispezionata per vedere se il pane era pronto. Gli amici offrivano i loro consigli. Uno suggerì che era inutile che il lievito venisse dall'aria; si poteva temer da parte un pezzo della pasta inacidita e servirsene per «trapiantare» la lievitazione della pasta nuova. Così la pasta si sarebbe inacidita più in fretta e più compiutamente. L'idea si dimostrò preziosa e da quel giorno «la pasta inacidita per la lievitazione» fu custodita nelle case egiziane come cosa sacra, come altri popoli conservavano il fuoco familiare. Non osavano perdere il prezioso elemento principale della cottura al forno, l'elemento che faceva «lievitare» il pane. 16
Fu dunque nell'antico Egitto che il lievito, simbolo di crescita e d'elevazione spirituale, s'incontrò per la prima volta col forno «che è insieme utero e vagina, calore e luce»,17 spazio magico del passaggio dal crudo al cotto, dall'impasto acido all'alimento saporito. Ciò avvenne nel segno del pane, sole in miniatura che da millenni illumina il rischioso sentiero che si snoda tra la morte e la vita nell'orizzonte mediterraneo.
Ma non finiscono qui i debiti dell'umanità nei confronti degli antichi Egizi. A quanto pare, lo stesso setaccio fece la sua prima comparsa tra i pelati sudditi del faraone: «l'invenzione venne loro attribuita da Plinio, che lo disse composto con filamenti di papiro; d'uno staccio di giunchi ha provato l'esistenza la tomba di Ti».18 E si avanza pure l'ipotesi che i primi rudimentali mulini, risalenti a tremila anni prima di Cristo, siano stati costruiti in Egitto.19 La «macchina rotante» cominciò invece ad essere usata in epoca greco-romana. La maggior parte del pane si cuoceva nei forni pubblici che ospitavano anche le birrerie. Ma il grano veniva molito in famiglia. «Nelle case egiziane — assicura Edda Bresciani — si produceva la farina con una tecnologia elementare: i chicchi preliminarmente frantumati in un mortaio di pietra erano poi macinati con una pietra sopra una lastra litica inclinata; la farina grossolana era poi passata al setaccio. Per ottenere una farina più fine, si potevano tostare leggermente — o farli essiccare al sole — i chicci dei cereali prima di macinarli […]. Ne derivava che, col pane, era sempre mischiata della polvere minerale, la causa probabile dell'usura riscontrata sui denti della maggior parte delle mummie egiziane esaminate».20
Di grano, d'orzo o di farro, i pani egiziani avevano diverse forme: rotonda, ovoidale, triangolare, semicircolare. Quelli destinati agli dei venivano modellati in appositi contenitori d'argilla di forma conica ed erano talvolta cosparsi di cumino. I riti religiosi e magici venivano però onorati anche con focacce antropomorfe o zoomorfe. In certe ricorrenze sulle focacce si spalmava una sorta di «marmellata» di datteri e miele. Naturalmente, «nomi, forme e ingredienti potevano cambiare col tempo, il gusto, la moda».21
Ciò non toglie, però, che fin dal suo esordio nella storia, il pane si configurasse come alimento e segno, sostanza e forma, talismano magico e ultimo bastione della speranza di sconfiggere la morte. Impasto polisemico pregnante di valenze nutritive, terapeutiche ed apotropaiche, il pane era per gli Egiziani, un formidabile strumento mediatico attraverso cui l'uomo comunicava con i suoi simili e con i trapassati, gli dei, gli animali, le piante.
* * *
Dalla terra dei faraoni la civiltà del pane si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo. In forme e tempi diversi, ovviamente. I primi beneficiari dei progressi realizzati dagli Egiziani in materia di arte panaria furono naturalmente i popoli vicini, con i quali intrattenevano rapporti commerciali: i Fenici, i Greci e gli Ebrei. Poco invece sappiamo dei prestiti e dei ristorni intercorsi con la cultura mesopotamica fino al secondo millennio prima di Cristo, anche se sembra ormai certo che proprio la Mesopotamia fu la culla dell ' agricoltura e, forse, la terra dell'invenzione dell'aratro che tanta parte ha avuto nella storia dell'umanità. 22
Sappiamo inoltre per certo che il codice di Hammurabi contemplava l'orzo come moneta corrente negli scambi della vita quotidiana. «Se una taverniera — recitava la legge hammurabica — non ha voluto ricevere dell'orzo come forma di pagamento per la birra, ma dell'argento al prezzo più alto o se ha ridotto la quantità della birra rispetto alla quantità d'orzo, questa taverniera, se ritenuta colpevole, sarà gettata in acqua». E non potevano esservi dubbi sul valore corrente dell'orzo: «Se una taverniera ha dato un orcio di birra a credito, potrà rivendicare 50 litri di orzo al raccolto».23 L'esistenza e il consumo del pane è documento nei banchetti reali per i festeggiamenti di Capodanno del 672 a.C.,24 vale a dire alcuni secoli prima che il prezioso alimento fosse conosciuto dai Romani.
La civiltà fenicia, fiorita nella biblica «terra di Canaan», secondo Antonella Spanò Giammellaro, «affonda le proprie radici nell'ampio panorama culturale vicino-orientale, attingendone aspetti significativi, rielaborandone elementi, ma continuandone fondamentalmente la tradizione anche nel rinnovato contesto del I millennio a.C. ».25 Già all'inizio del secondo millennio si facevano largo uso di orzo, grano, spelta e un particolare tipo di frumento ( Triticum monococcum ) a Ugarit, «città siriana distrutta dai Popoli del Mare, della quale la regione fenicia era l'erede culturale più prossima». Si calcola che il consumo giornaliero di cereali in questa città si aggirasse sui 500 grammi pro-capite.26 Che la produzione dei cereali del luogo fosse insufficiente al nutrimento del popolo fenicio si evince dalla stessa Bibbia. In particolare il profeta Ezechiele si rivolge alla distrutta Tiro con queste parole: «Con te commerciavano Giuda e la terra d'Israele: ti davano il frumento di Minnit, profumi, miele, olio e balsamo».27 Ma il più grande fornitore di granaglie ai Fenici era l'Egitto. Questi le consumavano generalmente bollite, ma facevano anche uso di pappe, pane, focacce.28 Dalla condanna che fa Geremia nei riguardi dei culti stranieri apprendiamo inoltre che i Fenici erano soliti offrire schiacciate alla dea Astarte:
I bambini raccolgono la legna e i padri accendono il fuoco, le donne preparano la pasta e fanno schiacciate per la regina del cielo e si fanno libagioni alla dea Astarte.
Più avanti si legge:
E se noi — soggiunsero le donne —- offriamo incenso o libagioni alla regina del cielo, è forse senza il consenso dei nostri mariti che le abbiamo fatto delle schiacciate simili alla sua immagine e le abbiamo offerto libagioni? 29
Tutto lascia pensare che queste schiacciate simili all'immagine della dea bugiarda, considerata «regina del cielo», fossero plasmate con pasta lievitata, come qualsiasi altro pane antropomorfo, frutto della creatività femminile, ma pur sempre «arte plastica effimera»,30 spreco, consumo d'eccezione, volto a esorcizzare il pericolo di prolungati periodi di forzata astinenza alimentare.
Il popolo ebraico fu conquistato alla civiltà del pane grazie ai suoi contatti con gli Egiziani. E la Bibbia è sotto questo aspetto una formidabile fonte di informazioni storiche. Gli Ebrei erano originariamente allevatori nomadi e perciò, se integravano la loro alimentazione con i cereali, non consumavano pane: certi lussi non erano per uomini del loro stampo, abituati agli spazi delle praterie e a montare le tende ovunque trovassero buona erba per le loro pecore.
In questo contesto cade il biblico incontro fra i fratelli di Giuseppe, governatore d'Egitto, e il faraone, nel corso del quale, costretti a dichiarare il loro mestiere, gli umili allevatori dissero impacciati: «I tuoi servi sono pastori di pecore, come lo erano i nostri padri». Poi soggiunsero: «Siamo venuti a stare in questo paese, perché non c'è pastura per i greggi che posseggono i tuoi servi, e la carestia si è fatta molto grave nella terra di Canaan. Deh, permetti che i tuoi servi dimorino nella contrada di Gessen». Furono accontentati. E pose fine a centotrent'anni di «pellegrinaggio» Giacobbe, il vecchio padre, che di lì a poco fu ricevuto pure dal faraone, grazie al figlio governatore. «E Giuseppe assegnò il luogo di dimora a suo padre e ai suoi fratelli e dette loro dei possessi nella terra d'Egitto, nella parte migliore del paese, nella regione di Ramesse, come aveva ordinato Faraone. E Giuseppe provvide suo padre e i suoi fratelli e tutta la casa di suo padre di vitto, in proporzione della famiglia».31
Così gli Israeliti si misero a riparo di una grande carestia che nel volger di pochi anni ebbe come conseguenza la nazionalizzazione del bestiame e di tutte le terre d'Egitto, tranne quelle della casta sacerdotale: molti allevatori del luogo divennero contadini e cominciarono a coltivare le terre del faraone con l'estaglio di un quinto del prodotto.
Gli Israeliti divennero invece possessori della regione di Gessen, «e proliferarono, e aumentarono assai». Divennero, come gli Egiziani, mangiatori di pane.
E quando, dopo 430 anni di permanenza in terra egiziana (molti dei quali passati in schiavitù), i figli d'Israele scapparono in fretta e furia con il bestiame, per dirigersi, sotto la guida di Mosè, verso la terra promessa, temendo di dover soffrire la fame, si caricarono sulle spalle le madie con il pane in pasta «avvolte nei mantelli». Al momento opportuno «cossero la pasta che avevano portato dall'Egitto, facendone delle schiacciate azzime, senza lievito, perché, essendo scacciati dagli Egiziani, non avevan potuto indugiare, né prepararsi delle provvigioni».32
Vagarono, com'è noto, quarant'anni nel deserto gli Israeliti, secondo il racconto biblico; Mosè potè vedere la terra promessa solo da lontano. Ma, grazie a Dio, nessuno patì la fame. Certo, non mancarono i disagi e i momenti di scoramento. Ci fu, anzi, qualche iniziale borbottio contro Mosè e Aronne che lo collaborava. «Oh! — si lamentarono gli Israeliti — fossimo periti per mano del Signore, nel paese d'Egitto, quando sedevamo dinanzi alle pentole piene di carne, quando mangiavamo pane a sazietà! Mentre voi ci avete condotti in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine». 33
La moltitudine sopravvisse. La sera stessa «vennero su tante quaglie che coprirono il campo». La cena fu quindi assicurata. Al sorger del nuovo mattino il Signore fece piovere pane dal cielo. Sembrava rugiada, ma presto si trasformò in «qualcosa di minuto, granelloso, sottile come la brina della terra». Era la manna, mandata dal Signore. Somigliava «al seme di coriandolo, bianco di colore, e il suo sapore come di focaccia fatta col miele». 34
Per quarant'anni il popolo eletto si alimentò con questo provvidenziale cibo, sicuramente buono ma pur sempre surrogato del pane che in Egitto avevano mangiato «a sazietà». Gran popolo, però, l'ebraico! Sopportò sofferenze inenarrabili per amore di quella terra promessa che Mosè descriveva loro come «paese di corsi d'acqua e di fonti, di acque zampillanti dalle profondità nelle valli e sui monti; paese di frumento e d'orzo, di vigne, di fichi e melograni; paese di olive e di miele; paese, nel quale non avrai il pane misurato, ma dove non ti mancherà nulla; paese, in cui le pietre contengono ferro, e dai suoi monti potrai estrarre il rame»: una terra, insomma, dove «mangerai, anzi ti sazierai, e allora benedirai il Signore, Iddio tuo, per il buon paese che t'avrà dato». 35
Una volta raggiunta la terra promessa, i figli d'Israele, «accampati in Galgala, fecero la Pasqua al quattordici del mese, verso sera, nelle aride pianure di Gerico. Il giorno dopo mangiarono dei prodotti della terra, pani azzimi e grano tostato quello stesso giorno. Ma appena ebbero mangiati dei frutti della terra, cessò la manna e non ne ebbero più, da quando incominciarono a cibarsi dei prodotti della terra di Canaan di quello stesso anno».36
Il guaio fu, però, che i prodotti la terra non li dava spontaneamente: bisognava versare sudore dalla fronte per guadagnarsi il pane. La cosa agli Israeliti non andava proprio giù. Sapevano però che a questa regola non poteva sottrarsi nessun figlio di Eva, perciò molti allevatori, si convertirono, volenti o nolenti, in coltivatori, anche perché la legge di Mosè garantiva il possesso della terra. Ma consideravano il loro nuovo mestiere come scelta obbligata, maledizione divina, conseguente al peccato originale. Osservanti delle leggi apprese da Mosè, gli Ebrei hanno sempre rispettato il culto che il popolo deve a Dio, a cominciare dalla Pasqua e dal rito delle offerte che non esclude i prodotti da forno. Dio aveva infatti detto: «Quando vorrai presentare come oblazione qualcosa cotta al forno, offrirai focacce azzime di fior di farina intrise con olio. Che se la tua oblazione è un'offerta preparata in teglia, sia di fior di farina intrisa con olio, senza lievito. Dividi in pezzi e spargivi sopra dell'olio: è un'offerta».37
Che motivo avevano gli Ebrei per non osservare questo rito? D'altronde se l'Onnipotente non gradiva i cibi lievitati, anche loro «avevano un'avversione per l'acidità, per il contaminante misterioso e il principio visibile della dissoluzione». La sapevano davvero lunga i figli d'Israele… dopo aver accettato — Dio solo sa come — la pena del lavoro sui campi. «Il sudore del volto dell'uomo gocciolava sul pane quando veniva arato, seminato, raccolto, trebbiato, macinato e mangiato. L'uomo tenesse dunque lontana l'acidità dal suo Dio; era già sufficiente che egli stesso, l'uomo, avesse inacidito il pane col proprio sudore».38
In ogni caso i lavori agricoli erano benedetti dal cielo e così gli strumenti della panificazione domestica e i granai. La macina del grano e dell'orzo, che le donne usavano in famiglia, era considerata di vitale importanza, al punto da non potersi prendere in pegno «né la pietra inferiore ne la pietra superiore».39 Ma esistevano mulini in molti villaggi, stando al racconto biblico. Le panetterie pubbliche, a differenza dell'Egitto, erano poche e concentrate nelle grandi città.
Ce n'era sicuramente una a Gerusalemme negli anni di nascita di Gesù. Il pane quotidiano era generalmente rotondo o ovoidale e non troppo spesso, per consentire ai consumatori di spezzarlo con le mani: comportamento rituale, questo, che divenne proprio anche dei primi cristiani. Vale infine la pena di ricordare che presso gli Ebrei, il consumo del pane era generalmente accompagnato dalla carne o da altro companatico e dal vino, non già dalla birra come in Egitto.
* * *
I Greci si nutrivano di cereali millenni prima della nascita di Cristo. E praticavano l'agricoltura, sia pure limitatamente a qualche area pianeggiante, 4500 anni prima della guerra di Troia, che la più aggiornata storiografia data attorno al 1250 a.C.40 L'orzo compare abbondantemente negli scritti di Omero. Sappiamo dall' Iliade , per esempio, che i chicchi d'orzo facevano parte dell ' apparato celebrativo dei sacrifici agli dei, che solitamente si concludevano con grosse abbuffate.
E dopo che pregarono, gettarono i chicchi d'orzo,
trassero indietro le teste, sgozzarono [un toro], scuoiarono,
poi tagliaron le cosce, le avvolsero intorno al grasso,
ripiegandolo, sopra le primizie disposero,
queste sui rami secchi bruciarono,
ma i vesceri l'infilzarono; li tennero sul fuoco;
quando le cosce furono arse, mangiarono i visceri,
fecero i resti a pezzi e l'infilzarono su spiedi,
li arrostirono con cura, poi tutto tolsero.
Quando finirono l'opera ed ebbero pronto il banchetto,
banchettarono e cuore non sentì la mancanza di parte abbondante.41
La farina compariva nei ricevimenti ufficiali.
E una bevanda preparò loro Ecamede riccioli belli
Che s'ebbe da Tènedo il vecchio, quando Achille la devastò
figlia del magnanimo Arsinoo; gli Achei per lui
La serbarono, ch'era in consiglio il miglior di tutti;
prima davanti a loro ella spinse una tavola
bella, piedi di smalto, lucida; poi sopra questa
un canestro di bronzo, e dentro cipolle, compagne del bere
e miele giallo; e la farina del sacro orzo accanto. 42
L' orzo era, dunque, ritenuto sacro in Grecia. Non era il solo cereale, però: si faceva anche uso di avena, di spelta e di grano. E si mangiava pure il pane. Pare anzi che fosse la regola, a sentire Omero o chiunque altro si celi sotto il suo nome. In proposito sono illuminanti le parole con cui Ulisse descrive il ciclope Polifemo.
Era un mostro gigante, e non somigliava
a un uomo mangiatore di pane, ma a picco selvoso
d'eccelsi monti che appare isolato dagli altri. 43
Il ciclope era, insomma, un essere abominevole che nulla poteva avere in comune con gli uomini che mangiavano il pane. La metafora «picco selvoso d'eccelsi monti, che appare isolato dagli altri», in bocca ad Ulisse, quel volpone che, pur di salvaguardare la sua natura umana, rifiuta il cibo degli dei offertogli generosamente da Circe (con la quale pure finisce per condividere i piaceri del talamo), non è funzionale solo a marcare la differenza tra l'uomo civile e il barbaro: serve a denunciare che soltanto esseri mostruosi possono esistere fuori dal consorzio dei mangiatori di pane. Ma era veramente a portata di tutti il pane nella Grecia del secondo millennio a.C.? Sicuramente no, però c'era; e lo testimonia anche Erotodo. Dal quale apprendiamo pure che la panificazione si svolgeva in ambito domestico e che era incombenza tipicamente femminile. La stessa moglie del re di Lebaiè, nell'alta Macedonia, panificava; e si faceva anche carico del fabbisogno alimentare dei dipendenti dell'azienda di famiglia. Uno di questi, Perdicca, umile guardiano di pecore, ogni volta che la padrona faceva il pane, diventava «due volte più grasso». 44
Naturalmente quanto raccontato da Erotodo va preso per quello che è: una leggenda, che, però, la dice lunga sul contributo portato dal gentil sesso dell ' antica Grecia alla costruzione della civiltà del pane . Con la protezione di una potente divinità in gonnella, Demetra, sotto il cui nome si adombra la Madre Terra, le donne micenee non solo si occupavano della panificazione, ma avevano anche «un ruolo più importante degli uomini nella mietitura, nella trebbiatura, nella conservazione e utilizzazione dei cereali».45 È una verità, questa, che può sconcertare chiunque si accosti al periodo classico saltando disinvoltamente la storia di lunga durata dei primi secoli del secondo millennio a.C., di quegli albori delle civiltà mediterranee, di cui forse non abbiamo saputo leggere tutti i messaggi che potevano darci e che forse avrebbero potuto aiutarci a risolvere tanti problemi dell'oggi. «Il passato — ci ricorda Piero Bevilacqua — non è il retrobottega della casa lussuosa del presente. Spesso esprime sfere di civiltà obliate, sentieri fertili di conoscenza rimasti abbandonati».46
Uno di questi è il lavoro dei campi al femminile nella Grecia micenea. In occasione della mietitura dell'orzo e del grano le famiglie contadine, uomini, donne e bambini, si trasferivano nei campi con l'immancabile carico di «legacci di paglia, forconi, falci e pietre per affilare». Il lavoro non iniziava mai senza l'offerta di «una libagione, una preghiera e un canto al permaloso Spirito delle spighe per averlo amico, poi le primizie della mietitura venivano dedicate alla Dea del grano, Sitopotiya ». Il proprietario ricco «divideva il lavoro tra più gruppi misti di uomini e donne: un gruppo falciava, un altro ammassava in fasci eliminando la gramigna e la bardana, altri trasportavano i covoni al bordo del campo, i bambini spigolavano». 47 Il falcetto, depranon , consisteva in una lama di bronzo. Ma c'erano pure, nel XIII secolo a.C., attrezzi più arcaici, per esempio, una falce fatta con «un corno di cervo nel quale era inserita una fila di schegge di selci e di ossidiana». L'aia era considerata un'invenzione di Deô, dea dell'orzo. La trebbiatura si faceva con una tavola cosparsa di pietre taglienti, trascinata da un bue o da un asino. «In piedi sulla tavola, un uomo o una donna girano instancabilmente sotto il sole. Quando si ritiene che le spighe siano sufficientemente trebbiate, le paglie vengono separate con il forcone e tutto il resto è ammonticchiato in una piccola zona dell'aia. Non appena si metterà a soffiare un buon vento lo spulatore con grandi colpi di pala, lancerà in alto nel cielo il miscuglio di fuscelli e chicchi. Questi ultimi ricadranno al suolo; i fili di paglia, le loppe e la polvere andranno a sparpagliarsi sui campi». 48
Una volta separato dalla paglia, il grano veniva lasciato sull'aia sacra uno o due giorni e poi veniva diviso tra i ministri del culto, i re, le comunità e le persone della fattoria. I braccianti erano pagati in natura: gli uomini ricevevano circa un litro e mezzo di grano al giorno e qualche volta anche un po' di fichi secchi. Il lavoro delle donne era retribuito un po' meno. Per altri tipi di lavoro a Pilo le donne guadagnavano «un litro scarso di grano da farina e circa un litro di fichi al giorno».49
La molitura del grano e dell'orzo avveniva in ambito domestico. Ogni famiglia era provvista di una piccola macina litica che consentiva di ottenere la farina e la semola. «Tutto questo lavoro manuale toccava alle donne, alle quali era affidato anche il compito di preparare, una volta al mese o ogni tre mesi, l'impasto per il pane, farlo lievitare, infine lavorarlo bene con le mani, quindi infornarlo; con l'aggiunta di semi di sesamo, di papaveri, di finocchio o di cumino si facevano i dolci. Talvolta questo lavoro veniva fatto in gruppo, come si vede su certe terrecotte con figure». 50
I più noti prodotti da forno erano la galletta di avena, maza , e il pane, artos . Ma si mangiava anche la farinata, poltos . La farina si metteva sulla carne e si spolverava sulle bevande sacre. Ai novelli sposi si gettavano, in segno di augurio, generose manciate di chicchi di grano.51
L'alimentazione degli antichi Greci fu in tutti i tempi essenzialmente cerealicola, anche se il grano prodotto in loco non fu mai sufficiente a soddisfare la domanda. Si sopperiva importando granaglie dall'Egitto, da altri paesi del Vicino Oriente e, in seguito, anche dalla Sicilia. Tuttavia il pane di grano rimase a lungo privilegio dei ricchi e a questi stessi Solone impose drastiche limitazioni. 52 Se ne cominciò a diffondere il consumo a partire dal V secolo a.C., grazie ai rifornimenti che arrivavano dai Greci di Sicilia. In questo stesso periodo progredì notevolmente l'arte panaria e furono, tra l'altro, scoperti nuovi tipi di lievito, più sofisticati di quello appreso dagli Egizi, e adatti ad esser conservati per un anno intero. Uno si preparava impastando farina di miglio con mosto; un altro utilizzando mosto di tre giorni e crusca di frumento, il cui impasto si lasciava essiccare al sole. All'occorrenza, «se ne staccava un pezzo, si discioglieva in acqua calda e si impastava con la farina». A riprova di questi progressi, basti ricordare che «il primo trattato di panificazione fu compilato in Grecia da Crisippo di Thiana verso il 240 a.C. ». 53
Secoli dopo Ateneo poteva annoverare nella sua opera, I sofisti a tavola , circa cinquanta tipi di pane fabbricati in Grecia. E qualche altro ne contava ben settantadue, includendo però nell'elenco anche alcuni dolci. Il pane più comune, fatto probabilmente con farina ottenuta da una miscela di cereali era l' amogee , ma c'erano pani di tutti i tipi: d'orzo, di spelta, impastato col vino, col miele, con il latte, con un miscuglio d'ingredienti in cui abbondavano il miele e il formaggio. C ' erano pani fatti con fior di farina e pani di spelta non setacciata; pani per signori e pani destinati agli schiavi. E pani che non erano pani, ma cialde, focacce, sfogliate, pastoni vari cotti sui carboni e sotto la cenere, davanti alla bocca del forno e tra due ferri. Azzimi e «pani d'Etiopia». 54 C'era persino la kollura , che in Sicilia si fa tutt'oggi; e si chiama cuddura (con tutto il rispetto per Aristofane e per gli altri dotti che ce ne hanno tramandato il nome).
La rabbia è, però, che le antiche scritture non sempre ci spiegano cosa fossero alcuni di questi prodotti. Era, per esempio, veramente pane quello d'Etiopia? Chissà! Il nome indicava la provenienza geografica o il riferimento all'Etiopia era dettato dal colore di questo (diciamo così) pane? È inutile chiederlo, ormai. Ma il dubbio è più che giustificato, per chiunque abbia letto questo brano:
In un immaginario dialogo fra i messaggeri del re di Persia e lo stesso re degli etiopi, Erotodo traccia un vero e proprio confronto culturale fra i due uomini (nella prospettiva greca, il popolo etiope si collocava a metà strada fra «storia» e «mitologia»). Parte essenziale del dialogo è comunque il confronto fra i due diversi sistemi alimentari; l'etiope mostra una sorpresa mista a disgusto nell'apprendere che per i persiani base dell'alimentazione è il pane di frumento, laddove la dieta degli etiopi non prevede se non la consumazione di latte e carne bollita. Venuto poi a conoscenza che la coltivazione del grano prevede (come è facile ricavare dal testo erodoteo) la fertilizzazione con concimi animali, il re africano arriva a concludere che i «mangiatori di pane» non sono in realtà altro che dei «mangiatori di sterco». 55
È una vecchia storia: il cibo degli «altri» è di solito visto con sospetto, e ritenuto indegno di essere persino accostato al «nostro», al punto di considerarlo alla stregua della materia escrementizia. Questo tipo di ragionamento, comune ai popoli di tutti i tempi, non era certo estraneo ai Greci, né tanto meno agli Ateniesi, nelle cui mense affluivano i migliori prodotti della terra mediterranea. Essi però difficilmente usavano un linguaggio come quello che Erotodo attribuiva al re degli Etiopi: si limitavano a considerare selvaggi, barbari, quanti non mangiavano il pane e non bevevano il vino. Nella loro prospettiva la civiltà cominciava, insomma, con la conquista di questi alimenti, ottenuti attraverso l'addomesticamento della natura. Il pane non era più erba, il vino non sapeva più d'uva, grazie alla creatività dell'uomo civile. Cibarsene poteva anche significare ingraziarsi in qualche modo gli dei.
Si tramanda, in proposito, che fu un evento soprannaturale a volgere a favore degli Ateniesi l'esito della battaglia di Maratona (490 a.C.). «Un uomo disarmato - sono parole di Jacob -, in apparenza contadino, in veste succinte, comparve improvvisamente sul campo di battaglia. Un vomere d'aratro in pugno, egli avanzò, danzando e facendo il movimento di chi mieta un campo di grano, contro il potente esercito dei Persiani. Immediatamente dopo la vittoria egli svanì». Chi fosse il misterioso eroe nessuno lo sapeva, prima che l'Oracolo di Delfi desse questo responso: «Potete onorare il semidio Echetlios, emissario della dea Demetra». Dieci anni dopo la stessa divinità fece vincere i Greci a Salamina.56 Sorge però il sospetto che a determinare l'esito di queste battaglie, più che la dea, possa esser stato il pane, che non mancava certo ai Greci, a differenza dei Persiani, già a corto di vettovaglie.
* * *
L'arte panaria a Roma cominciò a svilupparsi nel II secolo a.C., negli anni cioè delle guerre macedoniche. I più antichi Romani mangiavano cereali sotto forma di chicchi crudi allo stato lattiginoso o arrostiti sul fuoco e minestre di fave, lenticchie, piselli, fagioli e ortiche. Queste ultime erano ritenute rinfrescanti.57 I cereali che cominciarono a coltivare dopo la fondazione di Roma, indicati spesso genericamente come frumentum , erano forse quelli conosciuti nella vicina Etruria: spelta, orzo, miglio, farro.58 La prima farina cominciarono ad ottenerla pestando i chicchi in grossi mortai. Questa operazione, cui erano addetti gli uomini, divenne a poco a poco una vera attività professionale, i cui titolari presero il nome di pistori ( pistores ). La farina di farro veniva gettata sulle vittime immolate a Giove, chiamato dai Romani Jupter . Ma era soprattutto l ' elemento base della puls , una specie di polenta spesso insaporita da legumi e verdure, il piatto simbolo dei più antichi Romani ( Quiriti ), preparato dalle donne sotto l'occhio benevolo di Vesta, dea del sacro focolare. Antica ghiottoneria era, inoltre, la placenta , ottenuta mescolando al farro il formaggio fresco e il miele. In seguito sarebbero stati indicati con questo nome i prodotti da forno con olio e sale.59 Si sarebbe invece chiamata crustum la ciambella zuccherata, il pane fatale di cui parlava Virgilio.60 Ma bisognava attendere la conclusione delle guerre macedoniche perché la civiltà del pane raggiungesse a Roma certi livelli di raffinatezza.
Tuttavia, molte cose erano cambiate fin dall'inizio dell'era repubblicana. I cereali si erano cominciati a mangiare sotto forma di gallette e focacce non lievitate cotte sul fuoco. Era sorta l ' Annona, pubblica istituzione deputata alla regolamentazione dei prezzi dei prodotti più consumati, e se ne era affidata la direzione ai cosiddetti edili, di estrazione plebea. Il culto di Vesta si era un po' appannato, per lasciar meglio risplendere una nuova divinità: Cerere, dea delle messi e personificazione di Demetra, accolta a furor di popolo a Roma, su suggerimento della Sibilla, consultata in seguito ad una grande carestia. Alla nuova dea la plebs romana aveva eretto un tempio su uno dei colli dell'Urbe, che divenne meta di molti pellegrinaggi e occasione di festeggiamenti, come mai prima se n'erano visti, a Roma. E un tempio a Giove era stato costruito intorno al 365 a.C. sul Campidoglio. In quell'occasione il padre degli dei era stato ribattezzato Jupter pistor , in segno di riconoscenza per quanto egli aveva fatto durante l'assedio dei Galli, suggerendo alle oche di starnazzare in modo da svegliare i Romani, i quali seppero resistere agli assalitori gettando sul loro campo, tra le altre cose, focacce.61 E intanto i contatti con la Magna Grecia avevano fatto conoscere ai cittadini dell'Urbe il grano siligo ( triticum ibernum ), da cui si estraeva una farina bianchissima.
Era quindi naturale che, quando i legionari invasero la Macedonia, subissero immediatamente il fascino del pane, il miglior cibo che gli dei avessero mai mandato all'uomo. A mostrare il primo pane ai maggiorenti dell'Urbe furono, a detta di Plinio il Vecchio, appunto i reduci dalla Macedonia. Nel 168 a.C., dopo aver sconfitto definitivamente Perseo, re dei Macedoni, a Pidna, i Romani fecero molti prigionieri che poi vendettero come schiavi a Roma. Quanti di essi erano fornai vennero obbligati ad insegnare l'arte panaria dentro le botteghe dei pistori. Da allora, per molti secoli, l'attività di produzione del pane si resse grazie alla larga disponibilità di manodopera servile. E pare che gli schiavi capaci di panificare fossero ritenuti merce di gran pregio, se è vero che per il loro acquisto si pagavano «cifre molto elevate».62
Il lievito venne forse dalla Macedonia, assieme ai primi panettieri. Ma presto si cominciò a preparare anche a Roma e, tra l'altro, con metodi innovativi: per esempio con il mosto o con l'orzo germinato. Il modello di forno introdotto dalla Grecia fu nel volger di poco tempo perfezionato, per adattarlo alle esigenze di una «industria» di fondamentale importanza in una grande città come Roma. La stessa molitura dei cereali non restò più la stessa: i vecchi mortai furono a poco a poco accantonati per far posto alle macchine rotanti, a trazione animale, umana o idraulica. Ma la più grande innovazione introdotta nell'industria panaria dai Romani fu senza dubbio l'abbinamento del forno e del mulino, che consentì una rapida ascesa del ceto dei pistori alla dignità di soggetto politico, oltre che di potentato economico che poteva permettersi il lusso di costruire monumenti funebri autocelebrativi (e perciò destinati a divenire preziose testimonianze storiche e antropologiche), come la tomba del fornaio Marco Virgilio Eurisace, che fa ancora bella mostra di sé fuori Porta Maggiore a Roma.
Forni nell'Urbe ce n'erano trecento all'epoca di Augusto. Ma già verso il 147 a.C., i fornai-mugnai avevano costituito il Collegium pistorum , la cui insegna era «un moggio a cono tronco che poggiava su un treppiede».63 All'epoca di Traiano un fornaio forestiero aveva la possibilità di esser cooptato tra i Quiriti, ove fosse riuscito a preparare cento moggi di pani al giorno per tre anni di seguito. La prospettiva era allettante anche perché solo i Quiriti potevano essere eletti senatori. Ma quanto costava questa prima arrampicata sociale? Da calcoli di Arnoldo Luraschi, supportati dalle informazioni di Plinio, l'ambìto riconoscimento veniva a costare al panificatore «la bella cifra di un milione settecentoqurantaduemila pagnotte». 64
Ma a prescindere da ogni incentivazione, non pochi fornai sgobbavano più dei loro schiavi. E non si vergognavano di portare il pane a casa dei clienti. Anzi, dire di un fornaio « bonum panem fert », cioè porta pane buono, significava ritenerlo degno di ricoprire una carica pubblica, cosa che accadeva con maggior frequenza di quanto non si creda. I meriti di questa potente categoria si misuravano in rapporto alle infornate giornaliere e alla bontà dei loro prodotti. «Le forme del pane romano erano più artistiche e arbitrarie di quelle degli Egiziani. I ricchi desideravano sempre qualcosa di nuovo. Quando avevano tra gli invitati un poeta, ordinavano pani in forma di lire; ai pranzi nuziali v'erano sempre pani dalla forma di due anelli congiunti». 65 Ma neppure il pane quotidiano si presentava per tutti lo stesso. A parte il sordidus , di sola crusca e perciò destinato ai cani, e il madidus , che le matrone applicavano sul viso «per mantenere la freschezza della carnagione», c'erano pani per tutti i gusti. Si passava dall' ostrearius , che si mangiava con le ostriche, al pepsianus , preparato per gli ammalati di stomaco; da una specie di tortiglione panis ortopicius , al panis testuatus , forse rotondo e sicuramente cotto in un recipiente di coccio; dal panis athletarum , grossolano e senza lievito, al panis aquaticus che galleggiava nell'acqua. La forma e il contenuto variavano non solo in base all'estro del panificatore, ma anche in funzione dello status del destinatario: il senatore non mangiava il pane dell ' artigiano, né il patrizio quello del plebeo. Non mancavano certo di professionalità, i panificatori romani. A richiesta impastavano pani a mò di chiavi, dadi, trecce e quant'altro desiderassero i clienti. Preparavano focacce con una grande varietà di ingredienti: miele greco o siciliano, olio africano, uova, latte, formaggio, semi di sesamo e di finocchio, mandorle, noci, pepe, foglie di alloro…
Ma non tutti mangiavano pane fatto dai fornai. Una pur modesta parte della popolazione panificava a casa. Si chiamava panis autophirus il pane casereccio integrale dei contadini. Più raffinato era, naturalmente, quello che compariva nelle mense dei grossi proprietari terrieri. I quali, però, solevano offrire ai clienti panem lapidosum , 66 pane che sapeva di pietra, perché elargito da falsi benefattori che null'altro avevano a cuore se non il prestigio personale e il desiderio di metter le grinfie sulla cosa pubblica. Ma solo questo pane mangiò per secoli la plebe romana, anche quando alle elargizioni private si sostituirono quelle dell'Annona.67
La madre di tutte le questioni politiche, etiche e religiose, nella Roma repubblicana e imperiale, fu sempre quella del reperimento e della distribuzione dei cereali. La plebe era spesso affamata. E la fame, i Romani lo sapevano bene, costituiva una minaccia dalle conseguenze incalcolabili. Le stesse guerre servili che insanguinarono per anni la Sicilia traevano origine dalla fame, anche se non solo da essa. Fu sicuramente così per la prima (139-132 a.C.) che iniziò sotto forma di rivolta di un gruppo di schiavi decisi a farla pagare a Deamofilo, ricchissimo proprietario terriero di Enna. L'odiato uomo trattava con particolare crudeltà i propri schiavi, marchiando a fuoco il corpo di questi sventurati, che peraltro nel loro paese d'origine erano stati uomini liberi e facevano esperienza della schiavitù perché caduti in prigionia. «Alcuni li gettava, in ceppi, negli ergastoli, altri li utilizzava come pastori senza fornire loro né cibo né adeguate vesti».68 Fu perciò ucciso e decapitato dagli schiavi, il cui capo, Euno, subito dopo si proclamò re e prese il nome di Antioco. Questo «re fanfarone» in pochi giorni fu a capo di seimila uomini, «ai quali si unirono altri muniti di asce, scuri, fionde, falci, pali di legno induriti col fuoco, spiedi da cuoco», e si impossessò di alcune città. Come un vero monarca, «fece coniare a Enna delle monete di rame che portavano impressa la testa di Demetra, una spiga di grano e la scritta abbreviata “Re Antioco”».69
Insomma, come già a Maratona e a Salamina, Demetra, dea del pane, non perse tempo a scendere a fianco di quanti combattevano quella guerra santa, che durò sette anni suscitando nuove rivolte in Attica, a Delo e in altri luoghi. Nella stessa Roma si registrò una congiura di centocinquanta schiavi, che però non degenerò più di tanto. Alla fine ebbe la meglio l'esercito romano. I seguaci di Euno si sgozzarono «l'un l'altro con le spade»; il loro capo chiuse ingloriosamente i suoi giorni a Morgantina: «fu imprigionato, ed il suo corpo fu divorato da una enorme quantità di pidocchi».70 Demetra non era più con lui, forse perché non lo riteneva più degno della sua fiducia. O forse perché era dovuta correre alla svelta a Roma per sostenere le riforme di Tiberio Gracco.
Figlio di un noto console e già compagno di Scipione Emiliano nel momento finale della distruzione di Cartagine (146 a.C.), Tiberio Gracco fu eletto tribuno della plebe nel 133. Alla carica arrivò con un preciso programma politico volto a correggere le grandi sperequazioni sociali esistenti all'indomani delle guerre puniche: la classe dominante sperperava nell'Urbe i proventi di estesi latifondi, acquisiti di solito per pubbliche benemerenze, e ingranditi a spese dei piccoli proprietari che, non potendo competere con i latifondisti, erano costretti a vendere le proprie terre a condizioni di strozzinaggio; il lavoro agricolo salariato si faceva sempre più raro perché i padroni preferivano utilizzare manodopera servile e lasciare molte tenute a pascolo; i ceti rurali andavano ad infoltire le schiere della plebe urbana che, bene o male, sopravviveva, se riusciva a racimolare qualche pugno di tutto il grano che arriva dall'Egitto, dalla Sicilia, dai territori già cartaginesi e dalla Spagna. Tiberio propose e fece approvare, non senza qualche espediente di dubbia legalità, una legge che limitava l'estensione massima di ciascun latifondo a 500 iugeri, elevabili a 750 per i proprietari che avevano un figlio e a 1000 nel caso di un maggior carico familiare. La parte eccedente doveva essere assegnata in lotti ai contadini. Le spese per il finanziamento della legge dovevano esser prese utilizzando le ricchezze lasciate da Attalo III di Pergamo in eredità al popolo romano. Si istituì pertanto un triumvirato (di tipo familiare) presieduto dallo stesso Tiberio, cui fu affidato l'incarico di attuare la legge. Ma la riforma rimase una pia illusione di un tribuno generoso che presto fu assassinato dai sicari del partito avverso.
Tiberio Gracco fu pianto dal popolo come un «missionario di Cerere». Al suo funerale partecipò una folla immensa. Ma la legge non fu applicata, nemmeno quando a ricoprire la carica di tribuno della plebe fu un altro Gracco, Gajo, convinto assertore della necessità di portare avanti la riforma avviata dal fratello Tiberio. Incontrò anche lui l'ostinata resistenza del patriziato latifondista e se non fu assassinato dai soliti sicari, fu solo perché si fece uccidere da un servo.
Assieme ai Gracchi morì anche la speranza di riformare in senso democratico lo Stato. La proprietà di tutte le terre dello Stivale si concentrò nelle mani di poche centinaia di famiglie aristocratiche, «le quali oziavano nelle loro ville e lasciarono che gli schiavi lavorassero. Né Mario, né Cesare, entrambi del partito popolare, riuscirono ad opporsi a questo malanno. Lo Stato abbandonò i suoi coltivatori, e si piegò, sottomesso, dinanzi ai ricchi. La prima conseguenza fu questa: il proprietario terriero italiano abbandonò gradualmente la coltivazione del grano. Egli trovò più redditizio servirsi delle sue terre come dei pascoli, perché bovini e pecore erano più redditizi che non il grano. Il ricco, certo, vendeva grano. Ma questo grano non cresceva in Italia. Era trasportato per nave, a tariffa bassissima, dai possedimenti d'oltremare».71
Alla plebe affamata dell'Urbe, la classe dominante offrì sempre assistenza alimentare, anziché lavoro. Il modello era paradossalmente quello introdotto da Gajo Gracco, il quale si era fatto promotore della prima legge frumentaria (lex Sempronia) che sanciva il diritto dei poveri ad acquistare mensilmente dall'Annona un certo quantitativo di grano ad un prezzo pari a meno della metà di quello di mercato. Ma Gajo forse concepiva questa forma di protezione sociale come misura transitoria, mano protesa ai condannati all'ozio, cui il lavoro nei campi avrebbe restituito presto la libertà. Invece la lex Sempronia finì per spianare la strada al più sfacciato assistenzialismo che abbia mai conosciuto la storia dell ' umanità e la plebe romana perse gli ultimi scampoli di dignità.
A quella prima legge frumentaria ne seguirono altre. Nel 100 a.C. la lex Apuleia di Lucio Apuleio Saturnino rese le frumentaziones distribuzioni quasi gratuite, con gravi conseguenze per le casse dell'erario. Abolite da Silla, esse furono ripristinate alla sua morte dalla legge del tribuno Marco Emilio Lepido (lex Aemilia) che fissava in cinque moggi la quantità di grano che si poteva acquistare a prezzo politico. La lex Terentia Cassia di Caio Cassio Varo e Marco Terenzio Lucullo (73 a.C.) ridimensionò il numero degli aventi diritto. Ma le maglie dell'assistenzialismo tornarono ad allargarsi dieci anni dopo, in forza di un senato consulto promosso da Catone. La lex Clodia rese addirittura gratuite le distribuzioni di grano a tutti i poveri dell'Urbe, che ormai ammontavano ad alcune centinaia di migliaia. Sicché Cesare, che pure era stato ispiratore di questa legge, si vide costretto a ridurre a meno della metà il numero dei beneficiari e a cercare soluzioni alternative, compresa quella di fare obbligo ai proprietari di bestiame di «tenere alle proprie dipendenze almeno un terzo di uomini liberi».72
Con tutto ciò, quando Ottaviano divenne imperatore, la plebs frumentaria che bivaccava a Roma era un esercito di circa 200 mila questuanti, compresi i falsi bisognosi. Naturalmente Augusto cercò di far pulizia. Ma dovette rinunciarvi. Anzi, alle frumentazioni ordinarie aggiunse quelle straordinarie che comprendevano anche olio e vino.73 Il merito più grande del primo imperatore romano fu, a giudizio di Svetonio, quello d'esser riuscito «a conciliare gli interessi della popolazione della capitale con quelli dei commercianti di grano».74 E poco contava se nei territori periferici mercanti e funzionari romani si arricchissero a spese delle popolazioni locali. La cosa più importante era che nella Capitale dell'impero regnasse la quiete. «A questo provvedevano il prefetto dell'Annona e i suoi fornai. Perché la distribuzione del sussidio avvenisse ordinatamente, si introdusse la tessera frumentaria , che era di bronzo e recava il ritratto dell'imperatore. Solo chi poteva presentare la tessera aveva diritto alla distribuzione mensile del grano. Più tardi la distribuzione divenne settimanale e le tessere furono di piombo».75
Nel III secolo d.C., anziché grano, si cominciò a distribuire pane: due pagnotte al giorno! E la tessera diventò ereditaria; il pane dell'Annona panis civilis ; quello distribuito al circo gradilis . Poi si cominciò ad elargire lardo e carne suina, sia pure saltuariamente. E la plebe prese ad adorare la dea Annona (parente stretta di Cerere) raffigurata nelle monete come una ragazza con la cornucopia nella mano sinistra e un mazzo di spighe nella destra. Venne considerato più divino l'imperatore e tutti gli auguravano lunga vita, e gli chiedevano pane. Pane, pane! Pane, lardo, carne di maiale. Paneum et circenses76: ecco cosa volevano quotidianamente centinaia di migliaia di oziosi, discendenti dei soldati–contadini che avevano fatto grande Roma. E venivano accontentati. Nel frattempo i barbari premevano ai confini, qualche provincia si staccava.
La divisione dell'Impero in Occidentale e Orientale diede un colpo letale alle possibilità di approvvigionamento dell'Urbe, perché l'Egitto, che forniva un terzo del grano consumato a Roma, fu aggregato a Bisanzio. E così, per la miope politica agraria, aggravata dall'assistenzialismo più sfrenato, «Roma, che sotto Augusto aveva un milione di abitanti, all'assedio di Alarico, nel 410, ne aveva appena centocinquantamila. Questo salto non sono guerre, invasioni, epidemie che lo spiegano, ma la mancanza di pane. E il pane s'inoltra per primo nelle ombre medievali, bigio e umile come vogliono i tempi di penitenza».77
* * *
All'epoca della caduta dell‘Impero romano d'Occidente il Cristianesimo era già religione di stato. Si era affermato, com'è noto, nonostante le atroci persecuzioni degli imperatori. Tra i primi ad abbracciare la nuova fede erano stati gli schiavi dei forni e molti degli assistiti dall'Annona, i quali erano soliti riunirsi nelle catacombe. Il pane ebbe, dunque, un peso rilevante nel processo di affermazione del nuovo credo. E fu determinante la stessa figura di Gesù, uomo della storia, nato come tanti altri poveracci, in una grotta, in mezzo al bue e all'asinello, animali che tiravano l'aratro. Per di più, quell'uomo, figlio dello Spirito Santo, aveva scelto di nascere a Betlèm, il cui nome in ebraico significa casa del pane. Ma questo forse non tutti i neofiti lo sapevano.
Conoscevano invece il Pater noster , la bellissima preghiera che Gesù aveva insegnato agli apostoli, nella quale si chiedeva a Dio: « panem nostrum quotidianum da nobis hodie ». E non si trattava di un pane come quello che l'imperatore faceva distribuire al circo, mentre i cristiani erano dati in pasto ai leoni. No, davvero! Era pane impastato coll'amore, oltre che con la farina e il lievito, a giudicare da quanto Gesù stesso disse agli apostoli appena finì di recitare il Padre nostro : «Chi fra di voi, se ha un amico, che, a mezzanotte, va da lui e gli dice: Amico, prestami tre pani, perché mi è arrivato un amico da un viaggio e non ho cosa offrirgli da mangiare; quello di dentro gli risponde, dicendo: Non mi dar noia, la porta è già chiusa, i ragazzi sono a letto con me e ora non posso alzarmi e darteli. Io vi assicuro che se anche non si volesse alzare e darglieli, perché amico, almeno per la sua importunità, si alzerà e gliene darà quanti ne ha di bisogno. Ora vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede, riceve, chi cerca trova, a chi bussa, verrà aperto. Qual è fra di voi quel padre che darà un sasso al figliolo che gli chiede del pane? O se chiede un pesce, gli dia invece del pesce una serpe? O se chiede un uovo, gli dia uno scorpione? Se voi, dunque, cattivi come siete, sapete dare ai vostri figli cose buone, quanto più il Padre del cielo darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono».78
E che cos'era stato il miracolo della moltiplicazione dei pani se non un atto d'amore? Con cinque pani e due pesci Gesù aveva sfamato cinquemila persone, e i suoi discepoli avevano pure riempito «dodici canestri dei pezzi dei cinque pani d'orzo, avanzati a coloro che avevan mangiato».79 Ma quel prodigio non si poteva ripetere tutti i giorni. Gesù l'aveva fatto per instaurare un dialogo con gli abitanti della Galilea che stentavano a guadagnare il loro pane. Bisognava perciò che partisse dal loro orizzonte culturale, dalle loro aspettative più immediate, per risvegliarne dal profondo le aspirazioni religiose, «contrapponendo al nutrimento materiale perituro un nutrimento misterioso che resta, il nutrimento che verrà dato dal Figlio dell'Uomo»:80 il pane che si fa «corpo di Cristo» attraverso il sacramento dell'Eucaristia.
Ebbene, affermatosi come religione ufficiale dell'impero, il Cristianesimo non tardò a sconfiggere le fedi ancestrali delle popolazioni germaniche e celtiche e a presentarsi «quale effettivo erede del mondo romano e delle sue peculiari tradizioni: il pane, il vino e l'olio, sintesi ideale del modello alimentare mediterraneo, sono anche i prodotti che la liturgia cristiana ha reso sacri, gli indispensabili strumenti del mestiere per gli assertori e i diffusori della nuova fede. Ecco, dunque, nei racconti agiografici dell'alto Medioevo, vescovi e abati intenti a seminare frumento e piantare vigne attorno alle chiese e ai monasteri di nuova fondazione; ecco, più in generale, un'immagine forte e vincente di questi prodotti. Le aristocrazie “barbariche” non tardarono ad essere conquistate».81
Meno semplice fu la conquista delle tribù nomadi, che pure avevano da qualche tempo imparato a coltivare modesti appezzamenti di terreno ad avena nelle vicinanze dei pascoli, dai quali si spostavano dopo il raccolto. «La minestra d'avena — assicura Jacob — non solo piaceva loro, ma diveniva una sorta di simbolo nazionale e di pietra miliare».82 Non per questo, però, accettarono a cuor leggero di abbandonare il vecchio mestiere di mandriano-guerriero per dedicarsi all'agricoltura che, nella loro concezione religiosa, era malvista dagli dei: Odino, dio del vento, Frigga, dea delle nubi, e Thor, dio dei tuoni. Quando furono costretti a farlo, cercarono di trattare i campi alla stregua di esseri viventi cui dovevano il massimo rispetto per non provocare l'ira degli dei. «Talune tribù cavalcavano furiosamente sui campi, per eccitare la tempesta e raccomandare i campi stessi alla buona grazia di Odino. Poiché il cavallo era consacrato al dio del vento, si ponevano teschi di cavalli ai quattro angoli del campo. Similmente, zanne e setole di porco venivano commiste alla terra arando, giacchè i porci, animali che grufolano, avevano maggior diritto alla terra che non l'uomo usurpatore. L'atto di arare riempiva i Celti, i Germani e gli Slavi di un intenso timore. Per sfuggire all'ira della terra, pretendevano che l'aratro non fosse una macchina, ma un animale dotato di volontà propria. Perciò gli Anglo–sassoni chiamavano l'aratro “naso di porco”, i Lettoni “orso” e i Renani “lupo” — come per addossare all'animale la colpa di aver scavato la terra. […] Il legno di aratro che fosse stato colpito dal fulmine non poteva essere usato per fare un nuovo aratro, perché così facendo, si sarebbe attirata l'ira di Thor-Donar sul nuovo aratro. Era bene bruciare un po' di peli del bue aggiogato all'aratro per proteggerlo dal fulmine. Alla prima aratura, si collocava un uovo davanti all'aratro: se l'uovo si rompeva, voleva dire che la terra era disposta ad accettare il sacrificio».83 Una serie di credenze, tabù e riti magici accompagnavano inoltre la semina, la scerbatura, la mietitura, la trebbiatura, la cottura del pane e, persino, l'attraversamento dei seminati.
Il Cristianesimo si sforzò di spiegare a questi popoli che coltivare la terra era un diritto dell'uomo, anzi un dovere, considerato che solo così si poteva ottenere il pane, quel dono di Dio che, nell'offerta eucaristica, si faceva suggello dell'alleanza del Creatore con l'umanità. Riuscì a farsi capire, ma non senza una fatica immane. Cominciarono a circolare forse proprio nel basso Medioevo alcune delle fiabe raccolte tra il 1812 e il 1822 dai fratelli Grimm. Una vuole che la trebbia sia caduta dal cielo e rivaluta anche il ruolo della zappa come strumento salvifico.84 Un'altra racconta che prima le spighe erano molto più pesanti e che, per l'uso improprio fattone da una donna, il Signore si arrabbiò e disse: «D'ora in poi lo stelo del grano non porterà più spighe: gli uomini non son più degni del dono divino«. Ma, provando pietà per quanti lo pregavano, ritirò la maledizione. «E così in cima allo stelo restò la spiga, come cresce ancora oggi».85
Ma, a legger bene questi ed altri brevi racconti d'ispirazione cristiana, non è difficile rintracciarvi retaggi d'origine pre-agraria. In ogni caso i popoli nordeuropei in epoca preindustriale hanno sempre accompagnato l'esercizio dell'agricoltura con precisi riti magici che, seppur non privi di varianti locali, si prefiggevano di «influenzare il corso della natura direttamente, tramite un'empatia fisica o una somiglianza tra il rito e l'effetto che il rito stesso dovrebbe produrre. Visti sotto quest'ottica, i rituali tradizionali della primavera e della mietitura nelle nostre campagne europee meritano di esser classificati come primitivi. […] E lo dimostra la consuetudine di gettare nel fiume la Madre del grano [ultimo covone mietuto] per ottenere pioggia e rugiada per le messi; di appesantire la Vecchia [altro modo di chiamare l'ultimo covone], onde ottenere un altrettanto pesante raccolto per l'anno successivo; di spargere il grano dell'anno precedente fra le nuove piantine, in primavera; di dare l'ultimo covone in pasto al bestiame perché prosperi e si riproduca».86
Oltre che portatori di una cultura ancestrale, nel Medioevo i popoli che erano vissuti nei boschi, nutrendosi di carne, latte e pappe di ghiande, erano paurosamente ignoranti in materia di agricoltura al punto da consumare spensieratamente anche la farina dell'ergot , segala cornuta dai grani neri e il sapore dolce, che già nel primo secolo dell'era cristiana Columella aveva indicato come sostanza velenosa. Il risultato fu che all'inizio dell'autunno del 943 nella città di Lemoges si verificò un'improvvisa epidemia che durò un anno e provocò la morte di quarantamila persone. La colpa fu data alla «Vecchiaccia del grano», contro la quale sembrava che non ci fosse nulla da fare. La gente, disperata, non faceva che pregare la Madonna, Cristo e i Santi, da Santa Genoveffa a Santa Geltrude, da San Martino a San Marziale: ma l'ergotismo continuava a mietere vittime. «La chiesa, generosamente, eresse ospedali per coloro che erano stati colpiti dalla malattia. I malati vennero affidati alla custodia di S. Antonio e la malattia fu conosciuta col nome “Fuoco di S. Antonio”. Ma al tempo stesso la Chiesa metteva al bando, come magia, le ricerche mediche. Soltanto nel tardo Rinascimento i medici — Lonicer nel 1582 e Kaspar Schwenckfeld nel 1600 — scoprirono la vera causa della terribile malattia e cominciarono a combatterla».87
I popoli nordici avevano, fra l'altro, una particolare fobia per i mulini idraulici ereditati dai Romani: trovavano sin troppo blasfemo imprigionare gli spiriti dei liberi corsi d'acqua per metterli a servizio di quegli ingranaggi diabolici che frantumavano i chicchi, con noncuranza per l'offesa arrecata alla Madre del grano. In particolare i Germani erano convinti che il fragore delle macine fosse un chiaro segno di poteri magici, come quelli espressi dai tuoni mandati dal dio Thor– Donar. Per combattere questa credenza, la Chiesa mise i mugnai sotto il protettorato di Santa Venera, originaria dalla Svizzera, «dove gli abitanti avevano collocato nei loro mulini dei piccoli idoli ai quali facevano offerte. Venera gettò gli idoli nei corsi d'acqua dei mulini. Da prima vi furono inondazioni, ma poi i mulini macinarono meglio che mai. Quando essa volle andarsene dalla valle boscosa dove questo era accaduto, i demoni fracassarono il suo carro e la sua barca. Allor la Santa prese una macina, la collocò nell'acqua, e la macchina galleggiò e Venera se ne andò sopra di essa fuor della valle… Per questa impresa, ancor oggi la dipingono con una macina da mulino sotto il braccio…». Era appunto questa la prerogativa principale di Santa Venera: render le macine più leggere e più umano il lavoro del mugnaio. Ma ha ragione Jacob, (del quale abbiamo preso in prestito le parole): «La leggenda dimostra quanto abbiano faticato i religiosi per convertire i vecchi terrori pagani in credenze cristiane». 88
La loro fatica fu però ampiamente ripagata. I popoli germanici e celtici non solo si servirono dei mulini ad acqua, ma inventarono nuove macine sfruttando l'energia eolica, quel soffio di Odino di cui prima avevano paura e che oramai, grazie a San Martino (protettore dei contadini) alleviava la fatica di quanti spagliavano la segala e il grano nell'aia. I mulini a vento furono infatti inventati in Olanda e da lì si diffusero nel resto d'Europa, a cominciare dalle regioni settentrionali. Nel 1295 le pale di uno di questi mulini cominciarono a girare a Parigi, sulla collina di Montmatre, già teatro del martirio di San Dionigi, di San Rustico e di sant'Eleuterio, e dal 1096 possesso dell'Abazia dei Benedettini. Nel volger di pochi anni sulla stessa collina furono eretti altri mulini a vento, non ultimo dei quali quello fatto costruire dai frati benedettini, il cosiddetto «Staccia-fino», vero modello di perfezione tecnica e muto testimone di tanti avvenimenti della storia di Francia: «dalla sua piattaforma — raccontano le cronache — Etienne Marcel, prevosto dei mercanti di Parigi, sorvegliò nel 1358 i movimenti delle bande mercenarie borgognone e progettò di dare Parigi a Carlo il Cattivo. E il vecchio mulino assistette impassibile all'assalto tentato su Parigi dalla Pulzella d'Orleans al mulino de La Chapelle».89
A promuovere la diffusione dei mulini a vento nelle varie regioni germaniche furono pure gli ordini monastici, scontrandosi talvolta con arroganti signorotti che si ritenevano padroni persino dei fenomeni atmosferici. Basti ricordare che nel 1391, quando i monaci del monastero di Sant'Agostino nell'Over Yssel decisero di costruire un mulino a vento, «il conte feudatario del luogo si oppose perché il vento passava sopra il suo territorio. Ma il vescovo di Utrecht, fortemente adirato, affermò che il vento dell'intera provincia apparteneva a lui soltanto e i monaci costruirono il loro mulino».90
Non c'era invece bácolo pastorale che potesse far recedere dalle proprie decisioni il conte della Frisia, il quale impose ai mugnai una tassa annua per l'uso del vento. Nulla poteva però arrestare la penetrazione dei mulini a vento nei territori germanici, anche se, specialmente all'inizio, era persino difficile trovare qualcuno del luogo capace di costruirli. Prova ne sia che ancora nel 1393 la città di Spira dovette rivolgersi a un tecnico olandese, per dotarsi del suo primo mulino a vento.
Ma già a quell'epoca il pane era l'alimento principale anche dei popoli nordeuropei. Era pane nero, di segala, o di farina di cereali associata a fagioli, piselli, vecce, castagne, ghiande e talvolta anche felci: «pane selvaggio», direbbe Piero Camporesi, cibo per masse affamate, che grazie alla Chiesa si erano da poco accostate alla civiltà del pane. Oltre che per la panificazione, la farina di cereali serviva a preparare anche semolini e zuppe che non dovevano esser troppo diverse dalla kasha russa, a base di segala e di grano saraceno. «In Inghilterra si faceva molto uso dell'avena, anche se essa è ricordata solo in tre manoscritti. Negli altri paesi i cuochi ricorrevano all'avena solo per preparare un piatto per i malati chiamato in genere Avenast , Avenat o Avenà».91
Nell'Europa medievale, specialmente negli anni di carestia, si chiamava pane qualsiasi cosa che ne facesse in qualche maniera le veci. Nei musei della Svezia tuttora si conservano pani fatti quasi esclusivamente con corteccia di pino e paglia. In Danimarca, in Turingia e in Ungheria i contadini «spilluzzicavano pagliuzze dai loro tetti e li mettevano al forno». Nella Svezia settentrionale s'infornavano pani di farina e sangue di renna. In Germania e nell'Estonia il sangue era di maiale, la farina d'orzo o di segala; ma le «focacce di sangue» non erano certo più appettitose delle svedesi. Men che meno lo erano i pani fatti di «terra con un po' di farina» che si preparavano in Francia nell'843. Nulla di nuovo, però: «Lo storico Martin von Troppan afferma che in Ungheria la gente mangiava la terra argillosa di una certa collina, e così visse per lungo tempo».92 Ma c'era di peggio nel Medioevo. Il cannibalismo non era pratica esclusiva di selvagge tribù africane o della «barbarie slava»; ancora nel 1314 in Inghilterra c'erano persone che «per fame, mangiavano segretamente la carne dei loro figli, e ladri in prigione i quali facevano a pezzi i carcerati novelli e ne mangiavano le carni ancora fumanti».93
Tanta mostruosità non si era registrata né all'epoca dell'impero romano né al tempo delle invasioni barbariche, quando non pochi allevatori del nord abbandonarono il nomadismo per dedicarsi al lavoro dei campi e fondare libere comunità stanziali. Il primo caso di cannibalismo documentato in Francia risale al 793, ossia all'epoca di Carlo Magno, quando alcune comunità rurali erano state assoggettate ai signori feudali e questi, oltre ad accaparrarsi la maggior parte dei prodotti della terra, imponevano l'uso dei propri mulini e dei propri forni a quanti erano soggetti alla loro giurisdizione: nessuno poteva macinare il grano con le mole domestiche; a nessuno era consentita la libera panificazione. Sicché la fame, che imperversava anche in tempi normali, quando c'era la carestia trasformava in bestie feroci persino le creature
Il feudalesimo fu poi diffuso in tutto il Sacro Romano Impero. E purtroppo la Chiesa non mosse un dito per impedirlo. Anzi, non pochi alti prelati divennero Vescovi Conti e non si comportarono meglio degli altri feudatari. Il che, se consentì alla Chiesa di procurarsi nuove risorse da destinare alla missione evangelica, finì per creare una grave frattura con larghi strati di popolazione cristiana che non riuscivano a saziarsi di pane. Ma secoli prima che ciò avvenisse, si consumò lo scisma d'Oriente che vide nascere la Chiesa greco–ortodossa. Motivo non secondario della dolorosa rottura fu la contrapposizione «tra il pane azzimo della tradizione ebraica (richiamato dall'ostia del rituale eucaristico romano) e il »vero» pane fermentato del Cristianesimo primitivo, orgogliosamente conservato nel rituale ortodosso quale simbolo di una diversa identità religiosa».94
I nodi per la scelta fatta a favore del feudalismo vennero al pettine nel Trecento. Stanchi dell'oppressione congiunta dei lord, dei vescovi, del sovrano e dei ricchi, nel 1381 i contadini inglesi insorsero per affermare il diritto di «impastare la pasta del pane per proprio conto». Occuparono Londra, penetrarono fin dentro la camera da letto della regina. Assaltarono le prigioni e fecero uscire i carcerarti, uno dei quali era un prete di buona favella, John Ball, che da decenni «tuonava contro i vescovi per il loro amore degli ornamenti e per la loro vita non cristiana. Il contadino — egli dichiarava — è il legittimo governante e il legittimo predicatore perché nessun'altra classe considera e adora Dio come il contadino». Tornato in libertà, parlò ai sessantamila che l'avevano liberato, improvvisando due celebri versi:
Quando Adamo vangava ed Eva filava,
chi era allora gentiluomo?
Tra i primi a cadere nelle mani dei ribelli furono lord Hale, consigliere dello Scacchiere e l'arcivescovo di Canterbury. Vennero entrambi giustiziati quattro giorni dopo. Inesperto com'era, il carnefice «colpì otto volte con la scure il collo dell'arcivescovo prima che la testa fosse spiccata dal busto». L'indomani il capo dei rivoltosi chiese ed ottenne d'incontrarsi a tu per tu con il re. Dopo avergli stretto calorosamente la mano, avanzò le richieste: «l'abolizione dei possedimenti della Chiesa e della Corona e uguaglianza sociale generale. Nessuno avrebbe dovuto possedere più di qualsiasi altro». Quel momento di gloria gli fu fatale: due cavalieri della guardia regia lo passarono a fil di spada. La rivolta continuò ancora per un mese sotto la guida del grintoso prete liberato dalla prigione, il quale non smise di ricordare ai vescovi: «Sta scritto in San Matteo, Non possedere né oro né argento ». Il 15 luglio 1381 finì sulla forca. Il suo cadavere fu squartato.95
Ispiratore di questa rivolta fu ritenuto John Wycliffe, docente di teologia all'Università di Oxford e teorico della «povertà evangelica». Inviso perciò alla corona, e al nuovo arcivescovo di Canterbury, nel 1382 fu costretto a lasciare la cattedra universitaria. Morì due anni dopo. Ma le sue teorie furono oggetto di dibattito ancora per molti anni. E non solo in Inghilterra. Su ispirazione dei teologi tedeschi e sollecitazione del papa Innocenzo VII, l'Università di Praga prese posizione contro le tesi del riformatore inglese. Ma si udirono anche voci fuori dal coro, espresse dalla «nazione ceca», capeggiata da Stanislao di Znojmo. Il prete Kunes de Trebovel non esitò a schierarsi contro la «Chiesa che tutto divora» sostenendo che i contadini non erano «né gli schiavi né gli usufruttuari della terra», ma i veri padroni, «i benedetti padroni del pane, del sudore, dei quali tutti viviamo!».96
Il più strenuo difensore delle idee di Wycliffe (e in definitiva dei diritti dei mir , le comunità di villaggio) divenne, dopo un periodo d'incertezza, un altro prete, figlio di contadini, Jan di Usinetz (1369-1415), detto Giovanni Huss. Predicatore di eccezionale eloquenza, alunno di Stanislao di Znojmo, Huss venne ai ferri corti col papato quando si oppose, mettendo nero su bianco ( Questio de indulgentiis – Contra bullam papae ), alla promulgazione delle indulgenze. Per questo dovette stare lontano da Praga per oltre un anno. Munito di salvacondotto imperiale, il coraggioso teologo andò a sostenere le proprie tesi al Concilio di Costanza, col risultato però di farsi condannare al rogo. Il popolo boemo si sollevò: un'armata di contadini marciò in tutte le direzioni, battendosi per sedici anni contro l'esercito dell'imperatore all'insegna dell'indipendenza nazionale e della libertà religiosa. E il movimento si fece pure sentire in Ungheria e ai confini della Germania, prima di esser sconfitto in Boemia.
Molto più drammatico fu ciò che avvenne in Germania dieci anni dopo. Il pomo della discordia fu anche qui il pane, impastato, come già in Inghilterra e in Boemia, con il lievito della religione. Ma non fu ininfluente neppure quanto avvenne in materia giuridica sul finire dl Trecento. Fino ad allora il regime feudale non aveva ancora cancellato l'antico diritto comunitario. Ma un brutto giorno l'imperatore ebbe l'infelice idea d'introdurre in Germania il diritto romano che, in buona sostanza, trasformò i contadini semiliberi in servi della gleba, legati per legge al fondo che coltivano. Fu un colpo grave, questo, per i benemeriti produttori del pane.
Il fuoco della rivolta cominciò a covare sotto la cenere di un'apparente normalità sociale il 31 ottobre 1517, quando il monaco agostiniano Martin Lutero, professore di Sacra Scrittura, affisse alla porta della chiesa di Ognissanti di Wittemberg le 95 tesi della sua Disputatio circularis pro declaratione virtutis indulgentiarum con cui prendeva nettamente posizione contro il bando delle indulgenze lanciato dal papa Leone X per raccogliere fondi da destinare alla fabbrica di San Pietro, a Roma. Lo scontro religioso si concluse, com'è noto, con la scomunica di Lutero e la nascita della Chiesa protestante. Il monaco ribelle fu salutato dalle masse contadine come liberatore, perché la sua denuncia non era diretta solo contro il clero cattolico, ma aveva di mira anche la decadenza morale e la corruzione dei feudatari, almeno all'inizio della Riforma «evangelica». Ma quando, incoraggiati dalle calde prediche di colti luterani, i contadini insorsero contro l'aristocrazia feudale per reclamare, nel più ossequioso rispetto dei principi biblici, l'abolizione della servitù e della decima sul grano, un'equa tassazione del reddito, la libertà dei villaggi di eleggere i loro pastori, il ripristino delle norme di diritto comune e degli usi civici, Lutero fece un vergognoso voltafaccia a quanti avevano osato ribellarsi. Pubblicò un libello il cui titolo tedesco, Wider die ränberischen und mörderischen Rotten der Bauren (Contro le orde brigantesche e assassine dei contadini), con cui invocava la ferocia dei nobili contro i ribelli: «È il tempo della spada; non della pietà. Così le autorità vadano innanzi e con tranquilla coscienza abbattano e uccidano finché rimanga fiato nei loro corpi».
In rotta con Lutero (anche per ragioni squisitamente teologiche), un altro teologo protestante, Thomas Münzer, intanto guidava l'esercito dei contadini contro le truppe imperiali. Lo scontro si estese ad ogni angolo della Germania, dalla Svevia alla Baviera, all'Alsazia, alla Foresta Nera. Il sangue contadino rese rosse le acque del Meno, del Neckar, del Danubio, del Reno… Fu una carneficina spaventosa: montagne di cadaveri, migliaia di teste staccate, mani mozzate, ferri roventi conficcati negli occhi. Lo stesso Münzer fu decapitato. Si calcola che non furono meno di centotrentamila i contadini massacrati. Uno di essi urlò in faccia al boia: «Ahimè! Ora debbo morire e in tutta la mia vita non mi sono saziato di pane due volte!».97
Non bastassero queste dolorose lacerazioni, i cristiani della Riforma si divisero al loro interno a proposito del pane eucaristico, pane della vita. Lo strappo si consumò all'inizio del mese di ottobre 1529 nel castello di Marburgo, dove si riunirono i principali esponenti delle chiese «evangeliche», su invito del langravio Filippo d'Assia (1509-1557), il quale intendeva formare, con l'entusiasmo tipico dei ventenni, una grande lega politico-religiosa (estesa dalla Germania occidentale alla Svizzera, alla Danimarca, alla Francia) da contrapporre all'imperatore e al papa. Dopo tre giorni di accesa discussione, i convenuti riuscirono a mettersi d'accordo su tutti i punti controversi, fuorché su come intendere la frase pronunziata da Gesù nel distribuire il pane benedetto, appena spezzato, agli apostoli: «Questo è il mi corpo». Mentre Lutero la interpretava in senso letterale, il teologo ginevrino Zwigli vi attribuiva un significato simbolico. Il pane per lui restava sempre pane; Cristo non poteva trasformarsi in pane e, men che meno, in tanti pani contemporaneamente.
E così i protestanti svizzeri presero definitivamente le distanze dal luteranesimo e Lutero si alienò le simpatie di moltissimi dei suoi stessi seguaci. Tant'è vero che nel 1530 a redigere la Confessione augustana , cioè il documento ufficiale cui aderirono tutte le chiese luterane, comprese quelle della Scandinavia, non fu lui, ma Filippo Schwarz Erde che da qualche tempo aveva mutato il nome in Melantone. La confessione di Zwigli attecchì nei cantoni tedeschi della Svizzera. In quelli latini, nei Paesi Bassi, in Scozia e in alcune regioni della Francia si radicò invece la dottrina di Calvino, anch'egli simbolista e già seguace di Zwigli. Si dichiarò simbolista anche il clero inglese. Ma in Inghilterra la Riforma si attuò nel 1534 per motivi politici: Enrico VIII staccò la chiesa anglicana dal papato per metterla alle dirette dipendenze della corona.
* * *
Nei diversi regni, principati e repubbliche dell'Europa dei primi tempi dell'età moderna furono emanate leggi sorprendentemente analoghe volte ad assicurare il pane ai poveri. Il modello cui tutti i governi (da quello del cattolicissimo imperatore Carlo V a quello di Edoardo VI d'Inghilterra, capo della Chiesa anglicana) s'ispirarono, era espresso da un noto proverbio biblico: «Chi fa incetta di frumento, è maledetto dal popolo, ma chi vende il suo grano ha la benedizione sul capo».98 È vero, non fu invenzione cinquecentesca questa politica: i precedenti più lontani si trovavano nell'Egitto dei faraoni e nella riforma di Gajo Gracco; i più recenti nelle scelte dei primi stati nazionali e delle signorie italiane dell'alto Medioevo. Non c'è dubbio, però, che le norme emanate nel Cinquecento tenessero presente quanto era successo di recente nell'Europa centro – settentrionale.
Naturalmente era più facile legiferare laddove si potevano aggiornare o ripescare vecchie leggi. In questa situazione si trovavano la Francia e l'Inghilterra. In Francia la corporazione dei fornai aveva ottenuto una precisa regolamentazione giuridica già nel 1228, per volere del re Luigi IX il Santo. A dirigerla era il panettiere del re, scelto nell'ambito della migliore aristocrazia: portava la divisa e armi gentilizie, «bastone ornato d'argento» e partecipava a tutte le grandi cerimonie di corte. Il suo più stretto collaboratore era il luogotenente, che alternava il mestiere di fornaio con quello di regio ispettore: «faceva le visite di controllo ai padroni dei forni, teneva la contabilità delle multe e presiedeva all'elezione di certe cariche corporative, come quella di giurati. Erano, questi, dei probiviri, che traevano il loro nome dall'aver giurato sull'Evangelo: dovevano vigilare che la corruzione e la frode non entrassero nel sodalizio. Quattro di essi accompagnavano il luogotenente nel passare in rivista le panetterie. Se qualche pane sembrava piccolo rispetto al peso che doveva avere, fissavano una multa al fornaio, ma se troppi erano i pani che mostravano questo difetto e la fraudolenza era chiara, tutto il pane che si trovava nella bottega in quel giorno veniva dato a Dio: era un devoto modo di dimostrare che quel pane veniva gratuitamente distribuito ai poveri».99 Ma queste norme non furono sufficienti per evitare la rivolta antifeudale scoppiata nel vivo della guerra dei cent'anni nella regione dell'Oise, la famosa Jacquerie (1358) che, com'è noto, si concluse con circa 20000 contadini massacrati da Carlo II il Malvagio, re di Navarra. Servivano però ad affermare il primato nel mondo del pane prodotto a Parigi. Primato effimero, tra l'altro, visto che in seguito venne considerato migliore il pane viennese. I successivi adattamenti delle vecchie norme emanate al tempo di Luigi il Santo avrebbero mostrato i loro limiti fino alla fine del XVIII secolo.
Né si dimostrarono all'altezza della situazione le norme emanate a metà del Cinquecento da Edoardo VI d'Inghilterra. Nel suo regno il precedente più antico era l'editto del re Giovanni (1199-1216) che fissava il prezzo del pane in armonia con quello del grano. Questa legge era stata però sostituita dalla Assisa panis (1266) di Enrico III, che fissava il profitto netto del fornaio al 13%. Ciò non impedì alla categoria di guadagnare di più, corrompendo le autorità, «per poter cuocere a loro piacere pani deficienti di peso, più leggeri di un terzo o di un quarto del normale»,100 né alla corporazione dei fornai e dei panettieri londinesi di ottenere ritocchi alle spettanze dei panificatori calcolando «non solo i costi di legna, candele, uomini a giornata e apprendisti, sale, lievito e il costo del mugnaio, ma anche i costi del panettiere, di un gatto e anche di una moglie».101 Ma tutto questo non impediva le frodi, tant'è che spesso si vedevano «fornai infedeli» alla gogna, o trascinati a furor di popolo per le strade con pani irregolari appesi al collo. Meno che meno poteva appagare la fame di pane e di giustizia dei contadini che si rivoltarono nel 1381.
Sicché quando Edoardo VI decise di riformare la legislazione sul pane, dettò precise norme contro l'accaparramento, l'incetta e il monopolio dei cereali. I commercianti «non potevano comprare — e gli agricoltori vendere — su campione; non potevano acquistare raccolti non mietuti, né comprare per vendere nuovamente (nel giro di tre mesi) a scopi di profitto nello stesso mercato e in mercati vicini, e così via […] I mugnai e, ancor di più, i fornai venivano considerati persone al servizio della comunità, che lavoravano non per il profitto ma in cambio di un'equa ricompensa. Molti poveri avevano la possibilità di comprare il grano direttamente al mercato oppure di ottenerlo come integrazione del salario o con la spigolatura, di portarlo a macinare al mulino, dove il mugnaio poteva esigere la tradizionale molenda, e poi di cuocersi il loro pane. A Londra e nelle altre città dove tutto questo da lungo tempo aveva cessato di essere la regola, la ricompensa e il profitto del fornaio erano calcolati precisamente dalle ordinanze del Tribunale del pane, per mezzo delle quali sia il prezzo che il peso dellapagnotta venivano stabiliti in base al prezzo del frumento».102
La nuova normativa si mostrò nel complesso valida per circa un secolo, anche perché ad essa si affiancarono misure di emergenze per i periodi di carestia codificate nel Book of Orders nel quale veniva detto a chiare lettere che, «se i proprietari di grano e gli altri detentori di commestibili… non osserveranno di loro spontanea volontà questi Ordini», Sua Maestà provvederà a «dare l'ordine di imporre prezzi ragionevoli». Nel periodo elisabettiano i magistrati dovevano sorvegliare i mercati locali per verificare fino a che punto fossero in grado di «rifornire e servire» i consumatori «e specialmente la povera gente». Essi erano tra l'altro autorizzati a recarsi «alle case dei fittavoli e degli altri agricoltori… ed esaminare quante riserve e provviste di grano essi hanno conservato e se si tratta di grano trebbiato o non trebbiato…».
Agli albori della rivoluzione industriale questa legislazione cominciò a mostrare le prime crepe perché il Book of Orders era caduto in disuso nel corso delle guerre civili, gli agricoltori e i commercianti avevano trovato il sistema di eludere la legge, i mugnai e i fornai non avevano mai smesso di rubare. A risentire maggiormente della situazione erano gli abitanti delle città e gli operai delle miniere, i quali ogni volta che si avvertivano i primi sintomi di una crisi alimentare non esitavano di organizzare manifestazioni di protesta. L'Inghilterra del XVIII secolo fu spesso teatro di tumulti e di sollevazioni popolari volti ad imporre il prezzo politico del pane.103 Gli assalti ai mulini, ai forni, ai magazzini e ai carri di grano durarono per più di un secolo. E ci furono momenti particolarmente drammatici negli anni 1740, 1756, 1766, 1795 e 1800, di cui furono i principali protagonisti i minatori di carbone e di stagno, i tessitori e i calzettai e le loro donne. Spesso erano anzi le donne che davano il la ai tumulti. Nel 1693 fu un grosso numero di donne a recarsi nel mercato di Northampton «con i coltelli infilati nelle cinture per imporre il loro prezzo del grano». Nel 1737 a Poole, nel Dorset, furono pure le donne a cercare d'impedire l'esportazione di frumento. «La massa — scrisse un cronista dell'epoca — è rappresentata da un gran numero di donne e di uomini che le appoggiano e giurano che se qualcuno si permette di molestare una delle donne nelle loro azioni essi formeranno grandi squadre e distruggeranno sia le navi che i carichi». Nel 1740, a Stockton, nel Durhan, la protesta per il pane fu diretta da «una signora con un bastone e un corno».
A partire dai primi anni dell'Ottocento le manifestazioni divennero più strutturate e di tipo quasi sindacale. La direzione passò agli uomini. «A tutti i braccianti — si poteva infatti leggere in un avviso scritto distribuito nel 1801 in Cornovaglia — e gli operai della catena di Stratton che vogliono salvare le loro mogli e i loro bambini dalla terribile minaccia di MORIRE DI FAME per colpa degli agricoltori crudeli e rapaci… Riuniamoci tutti immediatamente e muoviamo in formidabile schiera sulle abitazioni dei rapaci agricoltori, per costringerli a vendere il grano al mercato, a un prezzo più giusto e ragionevole…».104 Un paio di decenni dopo la lotta contro il carovita poteva contare sulle Trade Unions di Robert Owen, sui mulini cooperativi e sulle cooperative di consumo.
Le leggi di Carlo V rassomigliavano per certi aspetti a quelle di Edoardo VI d'Inghilterra. E si dimostrarono altrettanto inadatte a fronteggiare la situazione, anche perché subito dopo Filippo II istituì l'odiata tassa sul macinato che un politico siciliano nel 1848 avrebbe definito «flagello di tre secoli, servitù del pane».105 Ma, a prescindere da questo balzello, nel Cinquecento e nel Seicento nei territori sottoposti alla Spagna le crisi di sussistenza vennero più volte drammaticamente all'ordine del giorno e non c'erano leggi che potessero evitarle. L'assalto al forno delle grucce in cui fu coinvolto l'umile protagonista dei Promessi Sposi può anche essere un'invenzione di quel «tal Sandro, autor di un romanzetto», ma non c'è dubbio che cose del genere avvennero davvero in molte città amministrate da governatori e gran cancellieri spagnoli. E non furono nemmeno le più drammatiche.
In Francia la mancanza di pane fu il motore della sola grande rivoluzione che abbia cambiato veramente il mondo. «Nei mesi che precedettero la presa della Bastiglia, i popolani di Parigi avevano ricominciato a salutarsi col saluto della Jacquerie, saluto proibito: »Le pain se lève…» Quale pane? Non v'era pane, nel 1789. V'era soltanto la visione del pane. La mano del destino era ancora una volta all'opera e lavorava la pasta e apriva il grande forno…».106 L'assalto alla Bastiglia del 14 Luglio fu deciso perché si era da tempo sparsa la voce che dentro la solida fortezza potessero trovarsi le prove di un fantomatico «complotto del grano», di cui si sarebbero resi responsabili alcuni famigerati personaggi, amici del re. E il problema del pane costituì la preoccupazione maggiore dei rivoluzionari francesi fino al 1795. Su proposta di Danton nel 1793 a Parigi si cominciò a fabbricare il pain d'egalité : un pane integrale di pessima qualità per tutti, poveri e ricchi. Venne introdotta la tessera del pane e, come nella Roma imperiale, nel 1795 si fecero distribuzioni gratuite a tutti i parigini: una libbra e mezza al giorno ai lavoratori agricoli e ai capi famiglia, una libra a tutti gli altri. Eppure nel 1794 il raccolto era stato quanto mai scarso e in quel momento la Francia stava facendo i conti con una grave inflazione che fece salire alle stelle il prezzo del grano. Saint-Just proponeva che tutti i francesi tra i venticinque e i cinquant'anni d'età fossero obbligati a lavorare nei campi. «E gli uomini del Terrore proprio nell'anno dei raccolti mancati e della fame organizzarono una festa di ringraziamento per il raccolto. Roberspierre, vestito d'azzurro, con un'espressione rigida e astratta sul volto, percorse lentamente, a piedi, le vie di Parigi dietro una coppia di buoi “dedicata alla dea dell'agricoltura”. Recava in mano un mazzo di spighe di frumento e di papaveri; ma era ovvio che si trattava di un mazzo artificiale».107
Naturalmente la fame non si poteva combattere solo con plateali messinscene: di lì a poco le donne di Parigi scaricarono la loro rabbia contro gli esponenti più in vista della rivoluzione. Aggredirono l'avvocato Boissy d'Anglas, ministro del grano, e per poco non lo linciarono. Uccisero un deputato e gli staccarono la testa con un coltello da cucina. E avrebbero assassinato tutti i membri della Convenzione se non si fossero barricati nella sede delle riunioni, in attesa che venisse a salvarli un reggimento di soldati. La rivoluzione francese vinse, grazie a Dio; e l'ancien régime scomparve dalla Francia. Il pane dell'uguaglianza divenne bianco, di solo grano, in Francia e in tutti i paesi conquistati da Napoleone. I regimi feudali cominciarono a cadere, uno dopo l'altro, come pere mature.
Nel frattempo l'arte panaria aveva mosso i primi passi nel faticoso percorso della produzione industriale. Le prime impastatrici meccaniche erano state inventate dal fornaio parigino Salignac nel 1760, da Cousin nel 1761 e da Keferstein nel 1785. Nel 1810 un altro fornaio di Parigi, Lambert, progettò la prima impastatrice pratica, che tuttavia presentava ancora l'inconveniente di fare avvenire l'impasto in ambiente chiuso. Nel 1847 fu applicata con successo l'impastatrice Boland che presentava il pregio di non lacerare la pasta e di arearla. Ulteriori perfezionamenti furono portati alle macchine inventate da Rolland (1850) e da Deliry (1867). E intanto s'introduceva l'uso delle prime polveri di panificazione (1838), facendo tesoro degli studi di Whiting e di Liebig. Le scoperte di Luis Pasteur, attraverso la fermentazione alcolica, introdussero l'uso del lievito compresso. I più recenti progressi della tecnica collocano il settore in una dimensione industriale di tutto rispetto.
Tuttavia, in molte zone rurali d'Europa la panificazione domestica era ancora largamente diffusa fino a una ventina d'anni fa. E i forni contadini hanno ripreso a funzionare nelle aziende agrituristiche, con vera gioia degli ospiti che possono così scoprire il vero sapore del pane.
Fa rabbia però sapere che l'uomo non abbia ancora sconfitto la fame. «Era passato da poco mezzogiorno — racconta Mohamed Choukri — quando scesi al porto. Camminavo scalzo, ero stanco. Avevo bevuto un bicchier d'acqua. Passai davanti al chiosco dove si vendeva purea di fave. Avevo una fame da matti. Il sole picchiava duro. Fame, caldo: raccolsi da terra un pesce morto. Puzzava. Faceva schifo. Lo sciacquai e cominciai a masticarlo anche se era orribile. Era marcio […]. Un pescatore seduto su una barca stava mangiando una galletta. Lo guardai, lo fissai come fossi stato io a mangiare quella roba. Continuavo a guardarlo nella speranza che mi buttasse qualche avanzo. Gli auguravo in cuor mio di masticare lo stesso pesce marcio di prima. Lui guardava da un'altra parte, verso la città vecchia. “E butta, butta un pezzo di pane”, mi dicevo fra me e me. Il pescatore fu chiamato da un suo compagno, se né andò gettando la galletta in mare […] mi levai camicia e pantaloni e mi gettai in acqua».108
Cose da terzo mondo, si obietterà. Ma anche nei paesi industrializzati c'è gente che fa letteralmente la fame. Certo, l' Opera del pane di Sant'Antonio si è da tempo trasformata in pia istituzione che distribuisce denaro. Ma esistono ancora barboni che mangiano minestra e pane nei refettori della carità. Ed è ancora viva la memoria della fame di massa dell'ultima emergenza bellica. A Roma, nell'autunno 1943, era un'avventura rimediare il necessario per togliersi la fame. «Si faceva la fila per ore e ore per comprare le cipolle, i broccoli, la zucca. Alla chiusura del mercato c'erano donne che frugavano tra le immondizie dei cassonetti per trovare foglie e torsoli da cucinare. L'unica distribuzione sicura erano 100 grammi di pane a testa, ogni giorno, un pane fatto di segale ceci e segatura. Si trovava però la farina di castagne con cui si faceva una specie di castagnaccio. Si masticavano a lungo, lentamente, le castagne secche, le “mosciarelle”, o le carrube. La fame aveva un sapore dolciastro».109
Solo a Roma? Non c'era fame a Milano, a Torino, a Napoli? A Palermo il 19 ottobre 1944 esplose una manifestazione popolare che sarebbe passata alla storia come «la rivolta del pane». Ed esplosero pure le mitragliate della fanteria: trenta morti, centoquarantanove feriti.110
Tutti affamati! Come gli altri palermitani in giro per i paesi dell'entroterra in cerca di qualche canigghiottu , pane duro, nero, di sola crusca.
Drammi di questo tipo difficilmente possono esser compresi dalle nuove generazioni. Per loro il pane è solo uno degli alimenti e nemmeno dei più importanti. Sconoscono persino il concetto di companatico, per il semplice motivo che spesso consumano il «secondo» senza pane. Ma ancora nei primi anni cinquanta i cereali concorrevano per circa il 60% alla formazione delle disponibilità caloriche perché il pane e la pasta erano gli alimenti relativamente a più buon prezzo: nel 1952 mille calorie assunte sotto forma di pane costavano soltanto 35 lire che salivano a 45 nel caso della pasta, 70 per le patate e ben 700 lire nelle carni più pregiate. Era ancora «la scarsa capacità d'acquisto della popolazione a spiegare le caratteristiche della nostra dieta, l'uso e il non uso di certi prodotti base».111 Poi, l'esodo rurale, il progressivo miglioramento delle condizioni economiche dei ceti meno abbienti, l'aggressione pubblicitaria e l'affermazione del modello consumistico cambiarono le abitudini e gli stili di vita delle popolazioni d'Occidente. E posero fine alla panificazione domestica. |
|
Note
1 Cfr. H. E. Jacob, I seimila anni del pane. Storia sacra e storia profana, trad. it., Milano 1951, p.28.
2 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia , Palermo 1976, p.7.
3 Cfr. M. Montanari, Modelli alimentari e modelli di civiltà , in AA. VV. Storia dell'alimentazione , a cura di J. - L. Flandrin e M. Montanari, Roma - Bari 1999, p.76.
4 Cfr. H. E. Jacob, I seimila anni del pane cit., p.5.
5 Cfr. A. Luraschi, Il pane e la sua storia , Torino 1953, p.21.
6 Cfr. Jean Chevalier Alain Gheerbrant, op. cit. , v ol. I, p.467.
7 Cfr. F. Braudel, Il Mediterraneo – Lo spazio e la storia gli uomini e la tradizione , trad. it., Milano 1995, p.56.
8 Cfr. Ibidem .
9 Cfr. A. Luraschi, Il pane cit., p.15.
10 Cfr. Ibidem , pp.13-14.
11 Cfr. Erotodo, Storie , II, 2, 2-5.
12 Cfr. E. Besciani, La cultura alimentare degli egiziani antichi in AA. VV. Storia dell'alimentazione , cit. p.39.
13 Cfr. Erotodo, Storie, II, 92, 2.
14 Cfr. H. E. Jacob, op. cit., pp.46-47.
15 Cfr. A. Luraschi, op. cit. , p.32.
16 Cfr. H. E. Jacob, op. cit. ,pp.42-43.
17 Cfr. P. Camporesi, La terra e la luna. Dai riti agrari ai fast food: un viaggio nel ventre dell'Italia , Cernusco s/N. (Milano) 1995, p.28.
18 Cfr. A. Luraschi, op. cit. , p.29.
19 Cfr. E. Messineo, L'uomo e il pane in Sicilia Agricola , marzo/aprile 1995, p. 14.
20 Cfr. E. Bresciani, La cultura alimentare , cit. p.39.
21 Cfr. Ibidem, p.40.
22 Cfr. E. Messineo, L'uomo e il pane cit.; cfr. inoltre G. Oddo, L'aratro a chiodo racconta che… in Agricoltura moderna , 1999, n. 2-3, pp. 20-22.
23 Cfr. F. Joannès, La funzione sociale del banchetto nelle prime civiltà in AA. VV. Storia dell'alimentazione cit., p.29.
24 Cfr Ibidem , p.33.
25 Cfr. A. Spanò Giammellaro, Fenici e punici , in AA. VV. Storia dell'alimentazione cit., p.57
26 Cfr. Ibidem , p.57.
27 Cfr. Ez 27,17.
28 Cfr. A. Spanò Giammellaro, op. cit. , p.57,
29 Cfr. Gr 7,18 e 44,19.
30 Cfr. A. Cirese, Per lo studio dell'arte plastica effimera in Sardegna in AA. VV. Plastica effimera in Sardegna , Cagliari 1973, pp. 7-10.
31 Cfr. Gn 47, 3-12.
32 Cfr. Es 12, 34-40.
33 Cfr. Es 16, 3.
34 Cfr. Es 16, 4-31.
35 Cfr. Dt 8, 7-10.
36 Cfr. Gs 5, 10-12.
37 Cfr. Lv 2, 2-3.
38 Cfr. H. E. Jacob, op. cit. , pp.60-64.
39 Cfr. A. Luraschi, op. cit. , p.51.
40 Cfr. P. Faure, La vita quotidiana in Grecia ai tempi della guerra di Troia (1250 a.C.), trad. it., Ariccia(Roma) 1999, p.41.
41 Cfr. Omero, Iliade , II, 421-431.
42 Cfr. Ibidem , XI, 624-631.
43 Cfr. Omero, Odissea , IX, 190-192.
44 Cfr. Erotodo, Storie, VIII, 137.
45 Cfr. P. Faure, La vita quotidiana cit., p.228.
46 Cfr. P. Bevilacqua, L'altra modernità del Sud. Presentazione a M. Alcaro, Sull'identità meidionale. Forme di una cultura mediterranea , Torino 1999, p.XIII
47 Cfr. P. Faure, La vita quotidiana cit. , pp.228-229.
48 Cfr. Ibidem , pp.229-230.
49 Cfr. Ibidem , p.97.
50 Cfr. Ibidem , p.230.
51 Cfr. Ibidem , p.239.
52 Cfr. A. Luraschi, op. cit. , p.62.
53 Cfr. Ibidem , p.61.
54 Cfr. Ibidem , p.63-64.
55 Cfr. O. Longo, Il cibo degli altri in AA. VV., Storia dell'Alimentazione cit., p.204.
56 Cfr. H. E. Jacob, op. cit., pp.72-74.
57 Cfr. Plinio il Vecchio, Naturalis Historia , XXII, 15.
58 Cfr. G. Sassatelli, L'alimentazione degli Etruschi in AA. VV., Storia dell'alimentazione c it., pp.136-137.
59 Cfr. A. Luraschi, op. cit. , p.70.
60 Cfr. Virgilio, Eneide , 7, 115.
61 Cfr. A. Luraschi, op. cit. , p.77.
62 Cfr. Ibidem , p.79.
63 Cfr. Ibidem , p.93.
64 Cfr. Ibidem , p.94.
65 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., p.104.
66 Cfr. Seneca, De beneficiis , 2, 7.
67 Cfr. P. Garnsey, Le ragioni della politica: approvvigionamento alimentare e consenso politico nel mondo antico , trad. it., in AA. VV. Storia dell'alimentazione , cit., pp. 178-190.
68 Cfr. L. Canfora (a cura di) Diodoro Siculo. La rivolta degli schiavi in Sicilia , Palermo 1990, pp. 17-18.
69 Cfr. M. I. Finley, Storia della Sicilia antica , trad. it., Roma-Bari 1979, p. 161.
70 Cfr. L. Canfora, op. cit., pp.26-27.
71 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., p.110.
72 Cfr. A. Luraschi, op. cit ., p.89.
73 Cfr. Ibidem , p.110.
74 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., P.117.
75 Cfr. Ibidem.
76 Cfr. Giovenale, 10, 81.
77 Cfr. A. Luraschi, op. cit ., p.111.
78 Cfr. Lc 11, 5-13.
79 Cfr. Gv 6, 9-13.
80 Cfr. A. Feullet, Il pane di vita. Riflessioni eucaristiche per l'anno giubilare, Milano 1999, p.24.
81 Cfr. M. Montanari, Romani, barbari, cristiani. Agli albori della cultura alimentare europea in AA.VV., Storia dell'alimentazione cit., p.214.
82 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., p.148.
83 Cfr. Ibidem , p.154.
84 Cfr. La spiga in B. Dal Lago Veneri (a cura di) Grimm Tutte le fiabe , trad. it., Roma 1983, pp.520-521.
85 Cfr. La trebbia venuta dal cielo , Ibidem, p.349.
86 Cfr. F. G. Frazer, Il ramo d'oro. Studio sulla magia e la religione , trad. it, Roma 1992, pp.466-467.
87 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., p.162.
88 Cfr. Ibidem , p.165.
89 Cfr. A. Luraschi, op. cit ., p.159.
90 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., p.167.
91 Cfr. T. Scully, L'arte della cucina nel Medioevo, trad. it., Torino 1997, p.43.
92 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., pp.191-192.
93 Cfr. Ibidem , pp.193-194.
94 Cfr. A. Montanari, Modelli alimentari e identità culturali in AA.VV., Storia dell'alimentazione , cit., p.246.
95 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., pp.223-226.
96 Cfr. Ibidem , p.226.
97 Cfr. Ibidem , p.232.
98 Cfr. Pro 11,26.
99 A. Luraschi, op. cit ., pp.152-154.
100 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., p.182.
101 Cfr. T. Scully, op. cit. , p.42.
102 Cfr. E. P. Thompson, L'economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo XVIII in Id. Società patrizia-Cultura plebea, trad. it, Torino 1981, pp.64-65.
103 Cfr. Ibidem , pp.57-136.
104Cfr. Ibidem , pp.98-99.
105 Cfr. Archivio di Stato – Palermo, Real Segreteria-Polizia, Manifesto del ministro delle finanze Filippo Cordova, 15 Ottobre 1848, b.652 bis, doc. 7401. Cfr. inoltre G. Oddo, Lo sviluppo incompiuto Storia di un comune agricolo della Sicilia occidentale, Palermo 1986, p. 101.
106 Cfr. H. E. Jacob, op. cit ., p.315.
107 Cfr. Ibidem , p.324.
108 Cfr. M. Choukri, Il pane nudo, trad. it., Roma-Napoli 1988, pp. 92-93.
109 Cfr. M. Mafai, Pane nero , Milano 1989, p.167.
110 Cfr. Luttuosi incidenti a Palermo durante una manifestazione contro il carovita in Giornale di Sicilia, 20 Ottobre 1944.
111 Cfr. S. D'Andrea,“Problema sociale e umano la nutrizione ” in Rivista Agricoltura , n.3, 1952, p.52.
|
Torna all'indice
|
Vai a inizio pagina
|
|
pagine a cura di
Il Granoduro.it Consorzio di ricerca Gian Pietro Ballatore
|
|