Il pane travagliato
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Nella cultura contadina della Sicilia preindustriale il vero uomo era colui che mangiava pani travagghiatu, ottenuto, cioè, con il sudore della propria fronte. Altrimenti veniva considerato pani persu o, peggio, manciapani a trarimentu. I due epiteti non erano affatto sinonimi. Mangiapane a tradimento era il fannullone, il perdigiorno che viveva a spese degli altri; pane perso colui che non riusciva a lavorare, vuoi perché poco dotato di muscoli, vuoi perché malaticcio. Ma, mentre il manciapani a trarimentu di solito ostentava la propria condizione privilegiata, il pani persu si vergognava della sua involontaria inattività e cercava di nasconderla, specialmente quando la polizia gli chiedeva da dove traesse i mezzi di sostentamento. Nella Villafrati del 1850 uno di questi poveracci dichiarò di dare «pane travagliato» alla sua famiglia «facendo il mestiero di andare nei fiumi a prendere le mignatte e venderle».1
Ora, che qualche barbiere potesse comprare le sue mignatte, per applicarle nelle vene dei clienti, in alternativa ai soliti salassi, non era da escludere in linea di principio. Ma quanto le avrebbe pagato? Gli avrebbe forse tagliato un paio di volte i capelli, non di più. Era dunque esagerato parlare di pane «travagliato» in un paesino dove la stragrande maggioranza degli abitanti lavorava in campagna, dall’alba al tramonto, da stidda a stidda, per dirla all’antica. L’unico pane veramente «travagliato» era quello che si mangiava nelle famiglie contadine. E non solo in Sicilia.
Con il sudore della fronte
ti guadagnerai la tua povera vita
dopo lungo lavoro e fatica
ecco la morte che t’invita.
Questa quartina accompagna un’incisione di Hans Holbein il Giovane (Augusta 1497 — Londra 1543). La scena riprodotta è descritta magistralmente da George Sand (Parigi 1804 — Nohant 1867):
L’opera rappresenta un contadino che conduce l’aratro in mezzo a un campo. Una vasta campagna si stende in lontananza, vi si scorgono povere capanne; il sole tramonta dietro la collina. È la fine di una dura giornata di lavoro. L’aratore è vecchio, tarchiato, coperto di stracci. Il tiro di quattro cavalli che spinge davanti a sé è macilento, sfinito; il vomere affonda in un suolo aspro e ribelle. Un solo essere è vispo e arzillo in questa scena di sudore e fatica. È un personaggio fantastico, uno scheletro armato di frusta, che corre nel solco di fianco ai cavalli spaventati e li percuote, servendo così d’aiutante al vecchio contadino. È la morte lo spettro che Holbein ha introdotto allegoricamente nella serie di oggetti filosofici e religiosi, nello stesso tempo lugubri e comici, intitolata i Simulacri della morte.2
Nella Sicilia arcaica la penosità del lavoro dei campi era vissuta con particolare disagio dai contadini, i quali solevano dire: megghiu porcu ca viddanu, meglio porco che villano. A ridimensionarla un po’ era la consapevolezza che li peni pi lu pani nun su peni, li veri peni su senza pani. Le pene per procurarsi il pane erano, insomma, male minore rispetto a quelle della mancanza di pane. Pene necessarie, d’altronde, da quando Adamo era stato scacciato dal paradiso terrestre, pene che bisognava sopportare con cristiana rassegnazione. Per i contadini dell’Ottocento il vero sacrificio era quello della pianticella di grano, nella cui vicenda era addirittura raffigurata la passione e morte di Gesù Cristo. E non a caso: il paesaggio agrario era allora largamente rappresentato dalla cerealicoltura. Un indovinello, citato da Pitrè, così riassumeva i guai che passava l’umile pianticella: veniva falciata, trasportata nell’aia come il Salvatore sul Golgota; e qui battuta, calpestata, maciullata fino a dover declinare il capo come un giglio secco; e tutto questo per nutrire l’uomo sotto forma di pane.3
Si comprende allora perché i contadini mettessero ogni fase del ciclo del grano e la stessa panificazione sotto la protezione di Dio, della Madonna e dei Santi, senza preoccuparsi di apparire ridicoli agli occhi degli altri. «La cultura popolare siciliana si presentava come una cultura profondamente vissuta e largamente partecipata. I cicli stagionali avevano in essa la loro scansione e nel suo sistema di regole le attività lavorative dell’anno trovavano la propria misura. Essa accompagnava l’individuo dalla culla alla bara e mediante i suoi codici ne orientava i comportamenti in ogni fase dell’esistere. Non costituiva certo un’alternativa o un surrogato ad una condizione economica insediata dalla precarietà. Contro tale condizione però essa offriva sistemi di difesa, apparati simbolici per il suo superamento».4
I metodi di coltivazione erano fin troppo arretrati, «presso a poco gli stessi di quelli che si avevano ai tempi di Virgilio e di Calumella, vigendo, quasi ovunque, il sistema triennale con maggese, non solo nei grandi fondi, ma anche nelle piccole tenute, e nulla facendo per eccitare la naturale produttività del suolo».5 Si usava, fino ad una cinquantina d’anni fa, in tutta l’Isola l’antico perticale siciliano in legno con la punta di ferro o d’acciaio, il vecchio aratro a chiodo, insomma, che si voleva inventato da Cerere e da Trittolemo. Esemplari di quest’arcaico strumento aratorio sono esposti nei musei etno-antropologici di tutta la Sicilia ed é possibile persino incontrarne qualcuno in funzione in alcune plaghe dei Nebrodi e dell’Etna. «Esso — sono parole di un agronomo di un secolo fa — consta del ceppo forato in centro e a cui s’innesta la bure, ad angolo ottuso, lunga da m. 3,80 a 4. Alla parte superiore del ceppo si ha la stiva (manuzza), nella parte inferiore il dentale a cui s’innesta il vomere, che consiste in una punta di ferro di forma lanceolato—acuta. Il ceppo viene connesso alla bure mercè un’assicella di olivastro o in ferro (tinagghia) la quale è fissa sul ceppo e scorrevole per la parte superiore entro un foro praticato nella bure; allargando o restringendo l’angolo che la bure forma col ceppo, si viene ad avere un lavoro più o meno profondo. L’aratro così costituito viene ad esser legato al giogo (poggiato sul dorso nel caso del tiro equino, sul collo nel caso del tiro bovino) che consiste in un pezzo di legno lungo almeno m. 1,60 portante alle estremità un anello di ferro e al centro un archetto ove s’introduce la punta della bure; finalmente fa ancora parte del tiro la rulla (augghiata), lungo bastone munito per un’estremità di una paletta in ferro. Con simile strumento, privo di coltello e di orecchie, oltre ad avere un maggior consumo di forza non si raggiunge che un semplice spostamento del suolo; con esso si aprono gran numero di solchi l’uno accanto all’altro, e spesso spesso rimane fra due solchi una striscia di terra punto scossa per cui la preparazione fisica sarà niente uniforme».6
Le varietà di grano più diffuse erano: il furmentu di maravigghia (triticum compositum); la majorca, grano tenero con le reste corte; la russìa, ruscìa o tallarò (Villafrati, Ciminna); la cannamasca che faceva granelli bianchi rotondi e piuttosto leggeri; il farru turcu (Nicosia) che faceva «granelli lunghi quanto i gherigli della spina e la spiga con le reste nere»; la bufala, dalle spighe grosse, la rapparina, con spighe a grappolo; diverse varietà di grano duro (giustolisa, realforte, gigante gioja, paola); il grano marzuolo, detto tumminia, timilia o trimulia. I nomi cambiavano da paese a paese. Ma, indipendentemente da come si chiamassero, tutte le specie di grano godevano della benedizione divina, tranne la segala o jirmana.7 Questo grano nero, secondo una leggenda raccolta a Naso, era stato maledetto dal Signore al tempo di Erode, perché non aveva offerto il necessario riparo a Gesù, Giuseppe e Maria, in fuga verso l’Egitto: «le spighe al loro passaggio si piegarono senza rialzarsi, sicché sarebbero stati benissimo scoperti».8
Non era raro che una varietà di frumento, già sperimentata «a meraviglia», dopo qualche tempo si mostrasse poco adatta a certi suoli perché soggetta alla golpe dei cereali che la faceva degenerare.9 Né l’attacco di questo noto parassita era il solo pericolo cui andava incontro un campo di grano: le gelate, l’aridità, i vermi, il loglio erano sempre in agguato e i contadini lo sapevano bene. Non a caso la prima domenica d’ottobre facevano benedire il grano destinato a seme; «non tutto, si capisce, ma un pugnetto tolto dalla massa, alla quale restituito e rimescolato dopo la benedizione, vi comunica[va] questa». Tramontata detta tradizione, rimase per lungo tempo quella di «segnar con una croce il grano innanzi di cavarne il primo tomolo, ripetendo intanto la parole consuete: Nomine Patri, di lu Figghiu e di lu Spiritu Santu! — oppure:’N nomu di Diu!».10
Nell’avviarsi a tracciare il primo solco, l’aratore (lavuraturi) pungolava i buoi dicendo: In nomu di Diu! Avanti! Tutti i seminatori che dormivano nella masseria ogni sera recitavano il rosario con una lunga serie di Credo, Pater, e Ave e «qualche speciale preghiera a qualche santo che ricorre nel tempo delle sementi e che s’invoca propizio a queste, cioè: San Martino, San Leonardo, Santa Caterina, Sant’Andrea»11 La stessa scelta del tempo della semina teneva conto del calendario religioso. Il contadino accorto cominciava a seminare il giorno di Ognissanti, in ottemperanza al detto: la prima a Tuttisanti, l’ultima a Sant’Antria. E finiva entro il 30 novembre, giorno consacrato appunto a Sant’Andrea. Nessuno però aspettava oltre l’11 novembre per iniziare, perché pri San Martinu megghiu sutta terra lu frumentu chi a lu mulinu.12 Né terminava dopo la festa di Sant’Antonio Abate (17 gennaio). Sinu a Sant’Antoni, li simenzi su boni, si diceva infatti a Mazara. Dopo era consigliabile aspettare il mese di marzo per seminare tumminia, le cui rese erano di solito inferiori a quelle di qualsiasi altro tipo di frumento.
Non erano però solo di natura religiosa le tradizioni che si osservavano nel periodo delle sementi. Usavano i metatieri andare a bussare alla porta del gabelloto o del massarioto (salariato dal proprietario) due ore prima che facesse giorno, quando ad oriente splendeva la stidda di li simenzi, che in altre stagioni si chiamava, stidda di l’arba o stidda di jornu, la cui apparizione nel cielo annunciava l’imminente arrivo dell’aurora. Le sementi venivano trattate dal padrone con una soluzione di solfato di rame detta cilenna, silestru, o petra celesti, a seconda della parlata locale. A consigliare questa scelta era di solito il timore «che le spighe appena nate soffrissero il male della volpe, la cosiddetta mascaredda prodotta da un particolare fungo nero che sporifica sulle spighe riducendole ad una massa pulverulenta»,13 ma anche l’eterno sospetto che il contadino potesse apprioparsi di una parte delle sementi. «Questi — scriveva nel 1895 Aristide Battaglia — lava il grano e lo manda al mulino per poi panizzarlo, ma non arriva mai ad annettarlo da quel caustico, oltre che danneggia sè stesso, perché quanto minore semente getta, tanta minore produzione ricava».14 Per evitare questi inconvenienti, a Modica si faceva largo uso di solfato di rame.15
Per i braccianti il periodo più bello era quello delle messi, che faceva seguito alla «trepidante attesa del pane e del vino».16 Ai primi di giugno essi si organizzavano in squadre dette opre o opere, secondo la terminologia usata da Salvatore Salomone Marino,17 composte da sette uomini e un liaturi, che generalmente era anche falciatore provetto, oltre che la persona più rispettata del gruppo. Il suo compito consisteva nel seguire i falciatori e legare i manipoli di grano in covoni. Al fianco teneva i legacci (liami di ddisa), in mano l’ancina, uncino di ferro, e l’ancineddu, forcina di legno. I mietitori indossavano un grembiule di olona detto pittali; al braccio sinistro un manicotto di cuoio (bracciali o vrazzali); al mignolo, medio ed anulare sinistri tre ditali di canna (canneddi); in testa un largo cappello di cerfuglione (cappeddu di curina). Erano provvisti di cembalo (tammureddu), zufalo (friscalettu), nacchere (scattagnetti); cantavano allegramente durante il viaggio e nelle soste per consumare la colazione. Sembravano quasi di un’altra razza: «magri, ossuti, bruciati dal sole, gli occhi lampeggianti». Prima di essere avviati al lavoro, passavano la notte nelle piazze dei paesi, quasi sempre sul sagrato della Chiesa Madre. I bambini ne avevano paura «come degli zingari».18
A dirigere il lavoro era il liaturi. Ancora nel 1950 a Lercara Friddi i mietitori provenienti dalle province di Agrigento e Caltanissetta, nel dare inizio ai lavori, «si scoprivano il capo e, con gli occhi rivolti al cielo e verso oriente, si facevano il segno della Croce. Il legatore diceva: “Sia ludatu e ringraziatu ogni mumentu / lu Santissimu e divinissimu Sagramentu”, e tutti in coro rispondevano: “Oggi e sempri”. Questa lode veniva ripetuta alla ripresa del lavoro, subito dopo la colazione e il pranzo. Su iniziativa del legatore, tutti i mietitori, uno dopo l’altro, cantavano motivi impregnati di religiosità, d’augurio e di scherno. Così per tutta la giornata. Erano preghiere e poesie che sgorgavano con semplicità dal cuore dei lavoratori, segni di una religiosità sentita e serena, erano toni scherzosi di sollazzo, quasi a volere alleviare la fatica sotto il sole cocente». Tra i Santi pregati nelle lunghe giornate di falciatura non mancava mai San Calogero, protettore dei mietitori.19 A fine giornata il liaturi alzava l’ancina e l’ancineddu dicendo: «Adoramu e ringraziamu» e i mietitori rispondevano in coro: «lu Santissimu Sacramentu oggi e sempri sia ludatu!». Quando si finiva di mietere un campo, tutti i lavoratori lanciavano in alto il cappello di cerfuglione gridando con gioia «Viva San Caloriu!» o «Viva San Giuvanni!», a seconda delle contrade.
Il trasporto dei covoni nell’aia anticamente si faceva con i citati carri senza ruote (strauli), tirati da buoi o da muli. A metà dell’Ottocento nella Piana di Catania si cominciarono ad usare i carretti; nelle zone montane i covoni si misero a trasportare su muli o asini bardati, ma si continuò a parlare di strauliari, operazione, questa, che si faceva sempre di notte. In qualche zona a cavallo delle province di Palermo, Agrigento e Caltanissetta li strauli rimasero in funzione ancora per una ventina d’anni dopo la seconda guerra mondiale.
La trebbiatura, detta localmente pisatu, pisatina, pisatura, cacciata, rimase fino a una cinquantina d’anni fa prevalentemente di tipo tradizionale, anche se in qualche latifondo le trebbiatrici meccaniche avevano già fatto la loro prima timida comparsa negli anni trenta del secolo scorso. In quasi tutta la Sicilia i covoni di grano venivano triturati dagli zoccoli degli equini che, appaiati, giravano nell’aia sotto la sferza di un guidatore (caccianti) che ne reggeva le redini e li costringeva a fare «differenti e numerosi giri concentrici allargando e accorciando la corda e spostandosi lui stesso di qualche passo».20 Nel Messinese si usavano anche i buoi, liberi o aggiogati, che trascinavano «una grossa pietra detta petra d’aria»,21 pietra d’aia.
Le trebbiatrici a vapore non furono praticamente mai usate in Sicilia. È vero, nel 1874 il Comizio agrario di Modica chiese ed ottenne dal Ministero il funzionamento per l’acquisto di una battitrice a vapore, la Cosimini, che aveva già funzionato a Caltagirone. Superate una serie di difficoltà per il trasporto, l’ingombrante macchina fu utilizzata in tre aie. Nella terza funzionò per un’intera settimana, anche se prima di arrivarci, i mulattieri (vurdunara), forse avvinazzati, l’avevano fatto precipitare in un burrone, procurando gravi danni a un mulo.22 Il padrone dell’aia, che all’inizio era entusiasta della novità, a fine lavoro si cominciò a lamentare: la battitrice non era facilmente trasportabile, consumava troppo combustibile, non triturava bene la paglia, richiedeva troppo personale, ecc. «Perciò rimase per quattro anni intieri sopra quell’aja senza una tettoia che ne tutelasse le parti facilmente suscettibili di guastarsi per le intemperie».23
L’aia si preparava in genere qualche giorno prima dell’inizio della trebbiatura, scegliendo sempre un posto ventilato, preferibilmente esposto al vento di tramontana. C’erano però alcune contrade, tra cui l’isola di Pantelleria e il Modicano, dove questa aveva tutte le caratteristiche di un manufatto in pietra destinato a durare nel tempo, con la dovuta manutenzione, s’intende. Nelle campagne modicane il pavimento dell’aia era acciottolato e delimitato da un piccolo bordo in pietra.24 La sola operazione preliminare era perciò la pulitura dell’aia.
In tutta l’Isola la trebbiatura del grano iniziava verso le dieci del mattino, quando il sole cominciava a picchiare e rendeva più facile la trita delle spighe. A questa regola faceva eccezione solo l’orzo, che si trebbiava di buon mattino, anche per ottenere la pagghia longa con cui s’imbottivano i materazzi. Ma qualunque fosse il cereale calpestato, mentre il caccianti correva «senza posa» dietro le bestie facendole girare al trotto, altri lavoratori (turnanti), riaccostavano le spighe attorno all’aia col tridente per mantenere la forma circolare dell’aiata.25 Ogni tanto un turnanti dava il cambio al caccianti che sopportava lo sforzo maggiore. Infatti, oltre a dimenarsi continuamente sferzando le bestie, doveva pure eccitarle con canti propiziatori:
Ri’ncantu ’ncantu c’è l’ancilu santu
Patri Figghiu e Spiritu Santu26
o più profanamente:
comu s’accapanu li regni di la costa
e s’accapau ri manciari pasta.27
Dopo circa un’ora si faceva riposare le bestie alle quali si somministrava la biada. Nel frattempo i turnanti erano impegnati a vutari l’aria, cioè a rimescolare l’aiata per evitare che rimanessero spighe non trebbiate. Poi iniziava la secunna caccia e il caccianti eccitava di nuovo le bestie:
Falla a — pagghia e tti nu vai
ti nu vai a li friscuri
unni stanu nobili e — signuri.28
Quando il grano era ormai uscito dalle spighe, c’era da sperare in un vento propizio per iniziare a spagghiari, ossia ad azionare il tridente per separare i chicchi dalla paglia. «L’operazione avveniva quando spirava il vento di tramontana (a mezzogiorno) o di ponente, detto anche ventu di S. Marcu, nel pomeriggio. La paglia che si accumulava ai bordi dell’aia veniva chiamata margunata e su di essa la notte si poteva comodamente dormire. L’operazione successiva, l’annittata, riguardava l’allontanamento della cama (pula) mediante una pala di legno […] Quando il prodotto era pronto, veniva insaccato nelle bisacce e trasportato nei granai che spesso erano situati in luoghi molto lontani, di solito nei centri abitati. Si formavano così file di nove animali,in genere muli, perché più robusti dei cavalli e degli asini. Il primo animale era il capo rietina [o retina], generalmente l’animale più forte e mansueto che trasportava anche il bordonaro, u vurdunaru, che guidava la carovana, la quale si muoveva di notte perché c’era più fresco (spesso i viaggi erano lunghi e faticosi e di giorno c’era troppo caldo). Poiché il primo animale era adibito anche al trasporto del bordonaro veniva caricato con un peso inferiore. Per questo, al posto della bisaccia, veniva caricato con la bisacciotta, a visazzotta, un recipiente più piccolo e meno pesante».29
La paglia era trasportata nei paesi dentro grossi recipienti di corda intrecciata, detti rituna o rutuna; oppure si conservava davanti alla masseria sistemandola a burgiu, «sorta di bica a sezione triangolare dove in alto veniva messa un’erba secca (fanusu), un po’ di terra e una croce».30
* * *
Il buon andamento del raccolto veniva propiziato con una serie di manifestazioni religiose, cui talvolta intervenivano i più alti prelati della curia. È il caso della benedizione dei campi che solitamente si faceva a conclusione della semina. In un diario del 1654 si legge che l’8 febbraio, «stante la sterilità occorsa in questi ultimi tempi», il papa Innocenzo X non solo patrocinò la benedizione dei campi a Palermo, ma addirittura concesse particolari indulgenze a quanti vi partecipassero, «con carico di digiunar tre giorni, e confessarsi e comunicarsi, con visitar la chiesa cattedrale, di s. Nicolò la Calsa, di s. Agostino, di s. Maria degli Angeli, di s. Domenico, di s. Giuseppe dei padri Teatini, di s. Caterina l’Olivella de’ padri di s. Filippo Neri». È superfluo aggiungere che vi fu un grande concorso di popolo e che vi partecipò, col capitolo e il clero della Cattedrale, l’arcivescovo. Di più fu eretto «un bello altare nel mezzo delle Quattro Cantoniere dai padri Gesuiti, a spese della città, fatto a forma piramidale, tutto adorno di statue di santi con candele e vasi d’argento; alla cima del quale v’era la Madonna della Concezione, principale protettrice di questa città».31 Ma anche in tempi normali i campi venivano in qualche modo messi sotto la protezione divina, vuoi con la benedizione del prete, vuoi con accorgimenti vari degli stessi agricoltori. I campagnoli di Naso piantavano canne a forma di croce nei campi seminati a grano. Quelli di Salaparuta vi spargevano la polvere «stata spazzata nelle chiese» dopo la resurrezione di Gesù Cristo.32
Ancora più curiose erano le manifestazioni per la pioggia o per farla cessare. Comune a tutti centri siciliani era la cosiddetta discesa dei santi delle diverse chiese in una più grande e centrale «per far cessar la pioggia, quando ne è caduta in abbondanza, o il buon tempo se questo è durato a lungo e le piante hanno bisogno d’acqua. I simulacri, trasportati sulle spalle, in mezzo a un’enorme calca piangente di contadini e di contadine, imploranti ad alta voce pietà, stanno allo stato di penitenza, finché la grazia non è fatta e dopo sono riportati alle naturali loro destinazioni in solenne penitenza. Nel periodo della penitenza i contadini vanno a pregare in chiesa per la concessione della grazia».33 Ma i santi «carcerati», come si diceva i certi paesi, non sempre concedevano la grazia. E allora succedevano cose turche. Nella primavera 1893, dopo averle provate tutte, alla fine i contadini persero la pazienza: «A Palermo, scaraventarono S. Giuseppe in un orto perché vedesse con i suoi occhi come stavano le cose, e giurarono di lasciarlo lì, sotto il sole, fino a quando non fosse caduta la pioggia. Altri santi furono girati faccia al muro, come bambini cattivi. Altri ancora, spogliati dei loro ricchi paramenti, furono esiliati lontano dalla loro parrocchia, minacciati, insultati pesantemente, tuffati negli abbeveratoi. A Caltanissetta, all’Arcangelo S. Michele vennero strappate dalle spalle le ali d’oro e sostituite con ali di cartone; gli fu tolto il mantello rosso, e venne avvolto invece in un cencio. A Licata, S. Angelo, il santo patrono, se la passò anche peggio perché fu lasciato senza vesti del tutto; ingiuriato, incatenato, minacciato di finire affogato o appeso a una forca. “O la pioggia o la corda!”, gli urlava contro la gente furibonda, agitandogli i pugni in faccia».34
Un’altra minaccia che incombeva sui seminati erano le ricorrenti invasioni di cavallette (griddi), alle quali si provvedeva con pratiche esorcistiche cui partecipava una marea di popolo. «Se oggi — scriveva Giuseppe Pitrè — la fanno [la rituale maledizione] i semplici sacerdoti o qualche modesto curato di campagna, in cotta e stola, una volta lo facevano vescovi ed arcivescovi di Palermo e d’altre città dell’isola in abiti pontificali con l’assistenza d’interi Capitoli e di Senati».35 Ma i contadini conoscevano anche altri metodi per impedire che questi maledetti griddi distruggessero i seminati, «o ricercando e distruggendo le uova, o dando la caccia alle cavallette senza ali, o infine dando la caccia alle alate» e più frequentemente, bruciandole, dopo avere ammonticchiato «frasche, rami secchi e paglia nei siti dove si riuniscono la sera le larve o le ninfe». Qualche intellettuale di paese dava ulteriori suggerimenti e concludeva: «che se poi molte ancora ne restassero e si sparpagliassero per i campi a cereali, converrà aspettare il principio dell’està, quando cioè saranno mature per farle raccogliere o per affidarne la caccia a squadre di tacchini».36
In bilico tra la pratica agronomica e il rito magico, un vecchio uso, comune a tutta la Sicilia, caratterizzava la festa dell’Ascensione (Sceusa) ai tempi di Pitrè e di Salomone Marino. «A punta di giorno preciso — scriveva nel 1897 Salomone Marino —–, da ogni podere, masseria, mandra, giardino, capanna o casa colonica, vedi sorgere colonne di fumo che svolgonsi da mucchi di frasche bagnate e rami verdi cui fu appiccato il fuoco. È la fumata. Fumo soltanto deve svolgere dalla lenta combustione, non fiamma; così il rito vuole e la tradizione mantiene, e quanto maggiore è il fumo, tanto più imponente è la cerimonia e più sicuro l’effetto […] Contadini d’ambo i sessi preparano la fumata e vi assistono immobili, con grande attenzione guardando all’ampiezza e alla direzioe del fumo e pispigliando Pater e Ave e qualche altra prece comune; ma nessuna cerimonia o preghiera speciale vi accompagnano». Quanto al significato, lo stesso autore precisa che, a giudizio dei «villici, in proposito interrogati», la fumata simboleggiava «i sacrifici che gli antichi facevano alla Divinità per propiziarsela».37 Giuseppe Pitrè si diceva certo che, nel far queste fumate, i campagnoli ad altro non pensavano «se non a cacciar le nebbie nocive ai seminati». E non mancava di polemizzare col Marchese di Villabianca che un secolo prima le aveva definite «superstizioso parto del demonio, che con tai fuochi vuole essere adorato».38
Si credeva allora che giusto nella notte della Sceusa calasse la grana ai seminati, vale a dire che da erba la spiga si mutasse in frumento. Perciò nella sterminata Piana di Catania, tradizionalmente seminata a granaglie, i contadini vegliavano all’aperto, «sotto la più ridente guardatura del cielo, a fine di osservare la bellezza di esso, e ricrearsi e confrontarsi nel pensiero e direi quasi nella vista (giacchè la fede in quel momento lo fa[ceva] loro vedere) di quel prodigioso mutarsi del grano».39
Nello stesso giorno dell’Ascensione a Cianciana si svolgeva un rito davvero curioso: si conduceva in processione la statua del Salvatore e le donne del corteo, per propiziare una buona granagione del frumento, di quando in quando gridavano:
Longa e grossa
La vulennu
La spicuzza.
Il che provocava «le allusioni e i molti equivoci de’ paesi vicini sulla lunghezza e grossezza invocata dalle ciancianesi».40
Per i contadini di Noto il santo protettore della granagione del frumento era San Benedetto, e nella cittadina barocca si soleva dire: San Binirittu ’mprena lu lavuri, San Benedetto ingravida i campi di grano. Nel resto della Sicilia questo compito era affidato a Sant’Antonio di Padova, la cui festa tuttora cade il 13 giugno. A lui era dedicata la cosiddetta tredicina, tredici giorni (dall’1 al 13 giugno) di orazioni e rosari. Ad organizzargli i solenni festeggiamenti, nella seconda metà dell’Ottocento, a Palermo erano i commercianti e i mediatori di grano residenti nella via Lincoln, «il granaio della nostra città»,41 che forse proprio per questo fino al 1860 si chiamava «Stradone di Sant’Antonino». Durante la tredicina erano soprattutto le donne rurali a rendere il dovuto onore al Santo taumaturgo:
Sant’Antuninu, Sant’Antuninu,
a lu gran Diu vu’ siti vicinu:
grossa la spica, biunna la grana,
ed ogni cori s’allegra e si sana!
Sant’Antuninu, Sant’Antuninu
bedda la spica e lu cocciu ben chinu.42
[…]
E se era particolarmente sentita la tredicina di Sant’Antoninu, non passava certo inosservata la festa della Madonna delle Grazie. «Qual è mai — si chiedeva Salomone Marino — quella famiglia che scorda di presentare alla Madonna delle Grazie la primizia del mazzuni, cioè il mazzo di spighe?». Questa Madonna miracolosa, invocata con particolare devozione in caso di siccità, godeva di generale venerazione in molti comuni (da Modica a Menfi, a Castrogiovanni, a Poggioreale, a Ventimiglia, a Palma di Montechiaro…) e, nell’Ottocento, era la Patrona di almeno tre paesi: Santa Caterina, Mirabella Imbaccari e Ferla.43 A portarne la statua nel paese di Santa Catenina, a voler credere alla leggenda, erano stati i mietitori, che la trovarono «abbandonata e piena di polvere» in una chiesa della vicina Caltanissetta.
«In Castrogiovanni — scriveva Pitrè — per la festa della Madonna delle Grazie si presentano al simulacro di essa grandi manipoli di spighe, le più belle della raccolta, come una specie di offerta, di ringraziamento, di ex–voto. E li offrono certi uomini ignudi affatto, ed ora indossano, ignudi come sono, una lunga tunica bianca, né più né meno che una vera camicia. La maniera ond’è compiuta questa cerimonia richiama direttamente alle antiche feste di Cerere».44
Un caratteristico rito di propiziazione è la processione delle torce che ancora oggi si svolge a Ciminna, in occasione della festa del SS. Crocifisso. «La processione delle torce è preceduta dallo stendardo e dalla banda musicale, i cui componenti procedono un tempo a cavallo. Seguono in due file circa trecento animali elegantemente bardati e cavalcati dai loro padroni, dei quali ognuno porta una torcia parata con nastri di seta a vari colori, raccolti a cocche o a festoni, con fiori artificiali, con figure del SS. Crocifisso e qualcuna anche con carte monete. Vengono infine altri animali ornati con sonagliere al capo e alla coda, coperti di panno a colore (curigghiuni) e carichi di frumento dato in elemosina al Crocifisso. Legati pel capestro l’uno dopo l’altro in numero di due o più i detti animali sono guidati da uomini i quali gettano per le strade ceci abbrustoliti, confetti e altri dolci». Appena il corteo arriva davanti alla Chiesa di San Giovanni Battista, «ogni individuo a cavallo si scopre devotamente il capo dinanzi l’immagine del Crocifisso, collocato sulla bara nel centro della detta chiesa, e si allontana: ma chi guida animali carichi di frumento si scopre pure il capo, poi fa il segno della croce e recita a voce bassa alcune preghiere, dopo le quali si segna una seconda volta, si copre col berretto e fatti alcuni giri si allontana. Infine arriva quello che guida la retina composta di sette muli e, dopo aver fatto la solita preghiera, comincia i giri che gli animali, già addestrati, compiono parecchie volte in mezzo al silenzio della folla. Ma l’inappuntabilità dei movimenti suscita l’ammirazione della folla, che infine scoppia in applausi e in battimani diretti al guidatore, il quale, ringraziando col berretto in mano e lanciando con l’altro confetti e dolci si allontana».45
Manifestazioni analoghe si svolgono in tanti altri paesi della Sicilia, a cominciare da quelli più vicini a Ciminna, e cioè Baucina, Villafrati e Mezzojuso.46 Non sempre però si svolgono a maggio. Quella di Villafrati cade la terza domenica di settembre, in occasione della festa di SS. Crocifisso. L’offerta di grano assume pertanto valore di rito di ringraziamento e di propiziazione di una nuova buona annata. Alla stessa funzione assolvono i contributi in frumento alle feste padronali e ai festeggiamenti in onore della Madonna di mezz’agosto. «Non v’è paese — notava Giuseppe Pitrè —, non città di Sicilia, nella quale non si faccia una gran festa in onore della Madonna Assunta; dove non si ha una rendita annuale per essa, si procura per via di questua di raccoglier tanto che basti alla solennità. In San Giuseppe de’ Mortilli, come dice il popolo, o Jato come il governo vuole che si dica, la deputazione della festa compera mesi prima un ronzinante qualunque, e se ne serve, nel giro delle masserie, pel trasporto della roba donata da’ divoti. Finita la festa, il povero animale, parato a festa, si riffa in pubblico».47
Non è azzardato pensare che il fortunato vincitore considerasse l’equino come dono dell’Assunta e si sentisse obbligato ad offrirle, per grazia ricevuta, un’ulteriore quantità di grano48 e magari qualche pane modellato in forma di cavallo. Asini, muli, cavalli, buoi, pecore, capre erano d’altronde beni importanti per i contadini, il solo capitale posseduto, tante volte, da mettere perciò sotto la protezione divina. Non a caso erano fatti benedire dal prete almeno una volta l’anno, in occasione della festa di Sant’Antonio Abate. La pia tradizione fra l’altro non è del tutto tramontata: a Prizzi, a Burgio, a Paternò e in altri paesi della Sicilia gli animali vengono tuttora fatti benedire ogni 17 gennaio, spesso assieme ai trattori e alle altre macchine agricole che hanno sostituito le bestie nel lavoro dei campi.49
Non rimane invece più traccia delle processioni di contadini che il 15 agosto, a mezzogiorno, andavano a fare benedire il grano nelle chiese, guidando lunghe cordate di «muli carichi, adorni di nastri, sonagli, fettucce, campanelle, con museruole nuove e colorite», per ritornare con «uno, due, tre sacchi» in meno, perché offerti, dopo la benedizione, alla chiesa, che era «quanto dire ai preti».50 Ma anche questo faceva parte del conto di chi mangiava pani travagghiatu.
* * *
Simbolo della vita, almeno quello lievitato, il pane «può esser fatto anche con cereali meno nobili, come il miglio (“Pan di miglio” s’intitola una deliziosa canzone lombarda del primo Rinascimento) e persino con dei non cereali, come le ghiande e — orrore! — la segatura».51 Ma, per fortuna, in Sicilia si mangia solo pane di grano. Certo, all’epoca dei tiranni siracusani, e ancora parecchi secoli dopo, i ceti più poveri dell’Isola erano grandi consumatori d’orzo. Ma già alla fine del Medioevo nessuno mangiava pane diverso da quello di grano, grano duro, fra l’altro, il frumento che, come dice giustamente Graziella Picchi, viene panificato «soprattutto nel sud del paese».52 È pur vero, però, che non in tutte le regioni meridionali un tempo si mangiava pane di solo grano. Se in Sardegna si produce un pane tipico d’orzo, nella Calabria agro–pastorale si sfornava un pane nero, e non sempre lievitato, fatto con le più strane farine, dal granoturco alla segala, alle lenticchie, alle castagne: pane immangiabile, «buono per i maiali» oltre che «segno dell’esclusione dal lusso del pane bianco».53
Chiaramente la fame c’era anche in Sicilia nei secoli passati. E bastava metterci piede per accorgesene. Il 9 ottobre 1793 passò da Villafrati il conte Carlo Gastone di Rezzonico e fu assediato, come ebbe a scrivere nel suo diario di viaggio, da un gruppo di «ragazzi ignudi, o coperti di cenci, che né di dietro, né di davanti nulla celavano» che gli chiedevano fastidiosamente l’elemosina; «ed io dovei dividere con esso loro il pane, e l’uva, e giunsero fino a rubarmi dal piatto le spolpate ossa, e le reliquie del tumultuario desinare, che ai cani si destinavano ed a’ porci, di cui qui sono numerose le greggi».54 Undici giorni prima, partendo da Alcamo, aveva ricevuto un analogo assedio «da miserabile volgo di storpi, di muti, di cenciosi, cui fa d’uopo lasciare quasi a forza l’elemosina». E non aveva potuto fare a meno di commentare: «L’Italia è il semenzaio de’ poveri, e la Sicilia parsemi la più afflitta da questo gravissimo flagello dell’umanità, dal quale non si vedrà giammai liberata, se non si adottano le politiche misure degli oltremonti».55
Quali fossero «le politiche misure degli oltremonti», l’avrebbero poi spiegato in una nota i suoi editori, eredi Abbate del fu Francesco di Palermo: «Fra i mezzi di allontanare la carestia tornerebbe in acconcio a’Siciliani quello di estrarre la fecola alimentaria da alcune piante, le quali in larghissima copia vegetano neglette nel terren beato della Sicilia. Il celebre Parmentier osserva, che le fecole di varie piante sono identiche in natura, e possono quindi convertirsi in alimento dell’uomo, come i pomi di terra [patate], la cassavia degli Americani, il sagau delle Molucche, ed il saleppe, che il bulbo di tutte le specie di arachidi può somministrare colla semplice decozione. Perché non potrebbesi dalla Palma flabellifolia, o dell’altre maggiori, che sono in Sicilia, estrarre il sagau? […] In alcuni paesi settentrionali gli uomini, e le bestie vivono solo di licheni, i quali giusta gli esperimenti dell’accademia di Stoccolma, per la semplice decozione danno un egregio amido. Le renne, i cervi e gli altri animali selvaggi del settentrione si pascon di licheni rangiferinus, e gl’Islandesi assiderati e torpidi fanno un delicatissimo liquore colla fecula del lichene Islandico».56
Il diario del conte Rezzonico fu pubblicato nel 1828. ma già nel 1802 l’abate Paolo Balsamo aveva espresso idee analoghe, sia pure con qualche cautela in più.
Prima d’ogni altro riflettete, che la più parte degli uomini avvezzi pressochè unicamente a nutrirsi di pane di grano portano tuttora opinione che esso sia solamente il vero e naturale alimento dell’uomo, senza che vi si possa altro per un tale indispensabile uso sostituire. Ma questo è certamente un errore; perciocchè se la parte amilacea si è la parte principale e forse più nutritiva della farina di frumento, e questa sparsa si ritrova in tutto quasi il regno vegetale, e in buona copia viene contenuta non che nelle biade, nei legumi, nel riso, nel mais, nel manioc, nella cassava, ma persino in qualche specie di felce e nelle castagne d’India; chiaro si scorge che noi mancando di pane di grano, un compenso trovar possiamo in altre produzioni vegetali che in qualche quantità racchiudessero il primario ingrediente di quella materia che per eccellenza farina denominiamo. Io non pretendo però con questo di dire che si debba o si possa francamente rinunziare al pane di grano con adoperare in sua vece qualche altra sostanza vegetale: molti sono i pregi che ha lo stesso considerato e come alimento e come vivanda al palato aggradevole per doverlo a qualunque di simil sorte preferire; affermo bensì che è un pernicioso pregiudizio il credere che non si possa altrimenti vivere che di grano, e che non si possano con altro le scarsezze del medesimo compensare. Non era l’America un paese popolatissimo, e frattanto non conosceva il frumento? Quante nazioni sostentano la vita loro col solo orzo! Quante altre colle sole patate! La loro farina non è così dolce e perfetta com’è quella del grano, pur nondimeno, come questa, racchiude in qualche porzione delle particelle che ci possono alimentare.57
Ma nessuno in Sicilia era disposto a rinunciare al pane di grano, né i ricchi, che avevano il forno familiare, né i poveri che il pane lo compravano a prezzo politico. Anzi, dopo l’abolizione della feudalità, nei comuni rurali, si diffuse la panificazione domestica persino nelle famiglie dei contadini poveri che, per alcuni mesi dell’anno, erano costretti a nutrirsi di fave, fichidindia, carrube ed erbe spontanee più o meno commestibili. In qualche paese, come Villalba, nell’Ottocento, comparve tra i più poveri coltivatori di fave (favalori)58«una malattia endemica, per così dire “professionale”: la zàfara». Era un male sconosciuto che i poveri favalori facevano «stagliare», senza troppo successo dal prete o dalla magara: «Entrambi, ma questa con maggior perizia dell’altro, strappavano un ciuffo dei capelli dalla zucca del favaloro e con gesti e orazioni scacciavano gli “spiriti maligni”che si erano incorporati nel contadino…». Dopo molti anni un medico diagnosticò che si trattava di una malattia che si manifesta durante la fioritura della fava nostrana […] alcuni soffrono in quei giorni di cefalea, ronzio delle orecchie, vomitazione di materie biliose, cardialgia, paralisi vescicale o emissione di urina semplicemente gialla, prostazione delle forze organiche vitali e tinta itterica o sub–itterica, che si presenta in tutto il corpo.
E prescrisse ai pazienti di «starsene lungi dai campi, ove fiori[va] la fava, e molto più di non mangiare siffatto legume verde, perché potrebbero correre pericolo di vita». Come dieta consigliò «il vino Marsala, il Vermut, i brodi, l’arrosto». Predicò al vento: «I favalori, non potendo comprare né carne né vino Marsala, continuarono testardamente a coltivare e a mangiare fave, preferendo morire di zafara anziché di fame».59
Ma il pane, che era «grazia di Dio», i favalori lo volevano di solo grano, anche se potevano mangiarlo per soli sei mesi all’anno. La pensavano allo stesso modo anche gli altri poveracci che di solito si nutrivano di «pani e sputazza», cioè pane e saliva, e in primavera si rimpinzavano di sulla, «proprio come le bestie, con conseguenti violente diarree che li inchiodavano in casa per alcuni giorni».60 Persino il «panotto» che i pastori davano giornalmente ai loro dipendenti era di grano come Dio comanda, in Sicilia. Solo in qualche masseria ingabellata a persone senza scrupoli il robettiere somministrava ai lavoratori pane di «grano non commestibile, composto di sottoscrivi e solami misti al loglio»: un pane che dava talora «il capogiro e il mal di stomaco».61
Ma i contadini a volte si ribellavano. Nel 1893, durante l’agitazione dei Fasci siciliani, un contadino di Piana dei Greci mostrò al delegato di polizia un pane che gli aveva dato il padrone, per fargli toccare con mano com’erano trattati i lavoratori dei campi. «Era un pane così nero e pieno di terra che non lo potevano mangiare neppure i cani».62 Un campione di pane immangiabile fu inoltre inviato da Campofelice a Napoleone Calajanni, il più stremo e intelligente difensore dei contadini che si stringevano attorno ai Fasci dei lavoratori. E questi si affrettò a precisare, con l’onestà intellettuale che lo contraddistingueva, che non in tutte le zone rurali dell’Isola si mangiava quel tipo di pane. «Miserie grandi — aggiunse —, non mancano tra i contadini, ma in generale essi mangiano del buon pane di frumento, che potrebbe essere invidiato dai lavoratori delle Calabrie e di alcune contrade del Veneto e della Lombardia».63
Le affermazioni di Colajanni erano confortate da quanto avevano scritto Abele Damiani nell’Inchiesta Agraria relativa alla Sicilia e soprattutto Sidney Sonnino nel saggio I contadini in Sicilia. Dopo aver denunciato con forza le piaghe della Sicilia del grano, questi ammise:
Un lato buono però vi è nella condizione del contadino siciliano, e specialmente se lo paragoniamo coll’ilota dei contadini italiani, col paisano della pianura bassa del Po. Il villano in Sicilia mangia pane di farina di grano, e salvo i casi di miseria, si nutre a sufficienza, mentre il contadino lombardo mangia quasi esclusivamente granturco, e soffre di fame fisiologica, anche quando abbia il corpo pieno. In Sicilia difatti non esiste quella terribile malattia che miete tante vittime nelle ricche contrade lombarde, la pellagra. È alla qualità del nutrimento che attribuiscono come prima ragione la vigoria fisica che si riscontra in generale nelle classi rurali della Sicilia, malgrado tutti i loro patimenti e la miseranda condizione sociale.64
A Sonnino avrebbe fatto eco nel 1897 Salvatore Salomone Marino: «Come si vede, i nostri villici non stanno poi male a cibo, e però sono sani, vegeti, vigorosi, né conoscono neppure di nome che cosa sia l’orribile flagello della pellagra».65Il vero è, però, che la vigoria fisica dei lavoratori dei campi derivava, certo e innanzitutto, dalla qualità del pane, ma anche dal largo consumo di legumi e principalmente di fave che pure davano il «mal di zafara», se mangiate verdi, come unico alimento per diverse settimane. Prova ne sia che a Modica alla fine dell’Ottocento pochi campagnoli erano particolarmente denutriti, nonostante le fave fossero «non solo la base principale dell’alimentazione del contadino modicano, ma quasi generalmente l’unica alimentazione».66
Per farla breve, nella Sicilia agro–pastorale un’abbondante minestra di fave con un filo d’olio d’oliva, un pezzo di pane di frumento e qualche bicchiere di vino, quando c’era, costituivano un’alimentazione giornaliera sana e certamente più equilibrata di quella della maggior parte dei contadini dello Stivale. L’unico cereale che in casi eccezionalissimi poteva sostituire il frumento era l’orzo: l’orzo, si badi bene, non già la veccia o le ghiande. E se ne ha conferma nella letteratura verista: «In tempo di carestia pane d’orzo». Rispondeva patron’Ntoni. «Necessità abbassa nobiltà».67 La nobiltà del pane che, in tempi normali, tutti i Siciliani mangiavano di solo grano.
Naturalmente non tutta la «grazia di Dio» consumata in Sicilia era bianca. I poveri spesso mangiavano pani murinu, pane scuro inferigno ricavato dal tritello meno raffinato. Dalla semola amalgamata con un po’ di farina bianca si ottenevano i muffuletti, panini «soffici e spugnosi sovente destinati ai bambini». Mescolando il cruschello con la semola più grossolana si confezionavano altri «piccoli pani integrali (ranza), che venivano consumati appena sfornati, conditi con olio e sale».68 Tipica di Chiusa Sclafani è inoltre la ranza e ciuri, una specie di pizza condita con cipolla, sarda salata, formaggio e talvolta anche salsiccia.69 Ma in tutti questi prodotti si usava in qualche misura la farina di frumento. Lo stesso canigghiottu, destinato ai cani, era fatto con crusca (canigghia) di grano duro, con cui si preparava pure il becchime per le galline e il pastone per i maiali.
* * *
La panificazione casalinga era compito tipicamente femminile in tutta la Sicilia. Nel Modicano spettava pure alla donna occuparsi della molitura del grano. «È lei la vera martire della famiglia — denunciava Serafino Amabile Guastella —; è lei che va al mulino col sacco sulle spalle».70 Il tipo di mulino più diffuso nell’Isola era quello idraulico, «massiccia costruzione sormontata da un torrione che somigliava a un castello».71 Ma c’era pure, nelle zone più aride, il cosiddetto centimulu, azionato da un equino bendato, che poteva essere asino o mulo. Nella Contea di Modica nel corso del Seicento fu inventato «un centimulo di legname portatile» che macinava frumento «senza operazione d’acqua né di bestia».72 Ma non dovette diffondersi molto se nell’area sono stati di recente censiti circa 1500 mulini ad acqua. Oltre a recarsi al mulino, le donne modicane ogni tanto andavano a giornata «per nettare frumento, o per vagliare farina». Ma, a detta dei loro uomini, «la donna tra l’impostare il pane e il figliare, terrebbe per minor fastidio il figliare».73 Il loro era però un giudizio alquanto ingeneroso: il sabato pomeriggio, quando il contadino tornava dalla campagna, trovava il pane caldo e qualche pasticcio (scaccia) o pizza con prezzemolo e un filo d’olio.74 Chi altro aveva potuto prepararglieli all’infuori della propria donna? Per giunta dei cinque o sei grossi pani sfornati, quella poveraccia ne lasciava «uno solo per la famiglia, [fosse] anche una nidiata».75 Il resto se lo portava il lunedì mattino il capo famiglia.
I ricchi affidavano il compito della panificazione alla servitù o alle «monache di casa», zitelle (spesso parenti dei padroni) religiosissime e particolarmente abili nel preparare manicaretti e dolci d’ogni tipo. Non a caso a Modica queste pie donne erano chiamate ducceri, ossia maestre dell’arte dolciaria.76 A proposito delle monache di casa si tramanda che una certa suor Flavia di Chiaramonte il sabato tralasciava le faccende domestiche per far visita a un santuario mariano sito a circa un miglio dall’abitato. Ma poteva permetterselo: al ritorno trovava il pane bell’e impastato dalla Madonna.77
A differenza di altre regioni d’Italia, come la Sardegna, in Sicilia mancava la «stanza del pane». Il forno era generalmente in cucina, se la casa era composta da più ambienti. In quella del contadino povero, che di solito era la cosiddetta mezza casa, consistente in una «stanza terragna, quadra, con i lati da otto o dieci metri, coperta solo da’ tegoli, con largo uscio ed una o due grandi finestre sempre nella facciata» si economizzavano al massimo gli spazi: «Di fronte all’alcova e al camerino, a’ due lati cioè dalla porta di strada e addossati agli angoli troviamo: di là il forno e due o tre tannuri (specie di grandi fornelli in muratura), di qua la mangiatoja per le bestie da soma; e sott’essa uno spazio dove la sera vengono chiuse le galline, mentre il majale è anch’esso imbucato nello spazio più vasto sotto il forno».78
E c’erano forni persino annessi alle capanne di frasca (pagghiara), se queste erano abitate permanentemente dai metatieri di un latifondo, come quelli della contrada Musoloco, nella valle del Tumarrano. «Il forno— scriveva nel 1968 Giorgio Valussi — occupa un rustico in muratura a secco con un tettuccio di tegole, appoggiato su un ordito di pali e canne che viene sostenuto da muretti laterali e da un furceddu. Altri furceddi più bassi, conficcati nel suolo sostengono nell’interno un graticcio di pali su cui poggiano le lastre di pietra da cui é costituito il forno vero e proprio. Lo spazio sottostante è adibito a deposito di legna o a pollaio».79 Nelle masserie della Sicilia occidentale il forno, detto spesso panetteria, assolveva anche alla funzione di dispensa o robetteria. Qui il pane veniva impastato e cotto dal robettiere o ribattiere, come si diceva nelle Madonie.
Gli strumenti necessari alla panificazione erano: due vagli (crivi), uno di seta per separare la farina dalla crusca e uno più sottile per ottenere il fior di farina; la maidda per impostare la farina con il lievito e il sale; la sbria o sbriga, cioè la gramola, consistente in «una tavola a forma di figura femminile, alla cui testa, tra due tavolette parallele, è disposta l’estremità di una stanga robusta, detta “sbriguni”»;80 lo scanauri per spianare l’impasto e modellare il pane; la pala di lignu, per infornare; il rasteddu o tirafocu, di ferro con la punta ricurva, per dosare la temperatura spostando la legna accesa dentro il forno; lo scupazzu di ddisa o di curina, scopa di ampelodesma o di foglie di palma nana.
Il pane si faceva generalmente una volta la settimana, il sabato o il lunedì, mai di domenica e nelle feste comandate per tema di mancar di rispetto a Dio e ai Santi. A tal proposito, osserva Salomone Marino «la massaia non omette di ripetervi la storia de La Donna di Calatafimi, la quale, per aver fatto di domenica il pane, perdette ucciso per accidente un bambino, un altro ella ne arse involontariamente nel forno, e infine cadde ella stessa scannata dal marito, che la ritenne autrice de’due infanticidi». Era inoltre ritenuto pericoloso panificare nei primi tre giorni di maggio perché il pane sarebbe muffito e la casa sarebbe stata invasa da blatte (muddacchini). All’origine di questa credenza c’è una leggenda, secondo la quale «una donna impastando il pane, che è grazia di Dio, niegonne un briciolo ad un poverello, mentre ne fu generosa ai Diavoli che il primo di maggio (come di solito) erano su la terra e le si presentarono sotto l’aspetto di Cavalieri».81 Si temeva, infine, che cuocendo il pane il Venerdì Santo si bruciasse Gesù Cristo.
Impastando il pane, le massaie di Noto recitavano il Credo e non si dimenticavano mai di fare la croce sulla farina prima di metterla nell’acqua. Entrando in una casa mentre le donne stavano gramolando l’impasto si usava augurare: Diu l’accrisci, che Dio possa accrescerlo. E le donne rispondevano tra il serio e il faceto:
Crisci cu’ veni
I dinari ch’aviti sarvati
Ni ni dati ’na mitati.
Vale a dire: possa crescere chi viene. I denari che avete conservati, ce ne date una metà. Per iniziare a infornare, le donne noticiane esordivano dicendo: In nomu di Diu e di Maria e poi:
Sant’Anna!
Saluti e beni a cu’ l’affanna!
Santa Rusalia!
Jancu e russu comu a tia!
Santu Luvatu!
Né ghiaimu, né passatu.
Santu Ramunnu!Crisci u pani quantu ’n furnu.
Santa Rita!
Janca e russa la muddica!
San Giuvanni!
Criscitilu beddu ’ranni!
Quando dentro il forno il pane presentava qualche bolla, rimediavano mettendovi sopra sale e crusca. Poi spazzavano la bocca del forno per allontanare li mali frisculi, cioè i diavoli.82 Altrove s’invocavano santi diversi e si osservavano altri rituali magici.83 Ma lo scopo era sempre lo stesso: far sì che il pane venisse buono, perché doveva durare per tutta la settimana.
A renderlo soffice era il lievito naturale, detto localmente criscenti, criscitura o livatina, ossia un pezzo di pasta cruda fermentata dal peso di circa duecento grammi, che ogni madre di famiglia conservava — dopo avervi inciso un segno di croce — da una panificazione all’altra, tenendo «al caldo in un’apposita tazza di terracotta, avvolto in una foglia di basilico perché si mantenesse fresco e unto da poche gocce d’olio».84 Sciogliendo il criscenti in acqua tiepida e aggiungendovi la farina nelle dovute proporzioni, la massaia poteva procurarsi tutto il lievito di cui aveva bisogno, cosa che di solito faceva la sera prima d’impastare il pane.
S’interrogavano le donne del passato cosa fosse nato prima, tra il lievito e il pane; ma la domanda restava senza risposta come nel caso dell’uovo e della gallina. Sapevano per certo però, le antiche, che se il pane era grazia di Dio, il lievito era dono della Madonna. E questo non poteva esser privo di conseguenze. Usavano le vicine di casa scambiarsi vicendevolmente il criscenti e di restituirne un po’ di più, in ossequio al proverbio Criscenti ’mpristatu / Si renni ammigghiuratu.85«Si sviluppava pertanto una catena potenzialmente infinita di prestazioni e scambi metafamiliari, un complesso giro di prestiti che finiva col rafforzare le relazioni interpersonali e i rapporti sociali di dipendenza nell’ambito della comunità». In buona sostanza interi paesi consumavano lo stesso pane, perché usavano lo stesso lievito e lo stesso tipo di farina.
«Nella vicenda dei prestiti s’inseriva la tradizione del cosiddetto criscenti di la Bedda Matri. In questo caso il lievito si faceva strumento di pratica devozionale. Si trattava di preparare nella stessa occasione tre pezzi di criscenti che venivano nominalmente dedicati alla Madonna. La donna che ne aveva curato i rispettivi impasti non ne faceva uso personale, ma li cedeva a tre diverse vicine che se ne servivano per panificare. Da questi si sarebbero riprodotti altri criscenti che attraverso vari prestiti sarebbero aumentati di peso e di volume […] Alla fine di queste molteplici transazioni alla massaia che in origine aveva preparato i criscenti di la Bedda Matri sarebbe stata resa una pasta cruda già fermentata superiore alla quantità di un intero pane. Il vantaggio che se ne ricavava era quindi monetizzato e messo da parte e così, accumulata una certa somma, si sarebbe data alla chiesa come offerta votiva alla Madonna».86
I tipi più diffusi di pane comune erano il vastidduni o guastidduni, pagnotta rotonda dal peso di circa un chilogrammo, e il cucciddatu, gucciddatu o vucciddatu, ciambella. Ma erano abbastanza diffusi anche certi panini, detti qui cosi minuti, lì pitittedda, a Modica pipittedda. Essi avevano generalmente forme piuttosto bizzarre e appetitose. Si chiamavano: vastedda, muffulettu, papalina (pane molle e spugnoso), ciumi tortu (fiume torto), a zig zag, pedi di voi (piede di bue), cùcchia o cùccia (coppia), cacòcciula (carciofo), ciuriddu (fiorellino), turticedda (piccola torta), turtigghiuni, cudduredda, raffigurante il gallo (che si faceva a Santa Croce per i bambini), scalittedda, a forma di scala. Non sempre però allo stesso nome corrispondeva la medesima sostanza: la vastedda di Palermo, per portare un esempio, era diversa da quella di altri comuni dell’Isola. Molto caratteristici erano i nomi di alcuni pani giornalieri di Palermo: «Pala, pani lisciu, pizzarruni, rugnuneddu a picce brevi e corte, varvuzza, barba, stratuneddu, forma di pane lunga e non appuntata ai capi; prucitanu, bislungo, a forma di capezzoli ai capi».87
Nel Siracusano si preparavano, oltre alle pagnotte di circa un chilogrammo, che potevano avere anche forma ellissoidale, e alle ciambelle, anche cosi minuti in forma di falcetto, il cui nome cambiava da paese a paese: ialuna a Palazzo Acreide, tatedda a Canicattini Bagni, urazza a Noto. «Con la pasta residua si preparavano poi dei pani espressamente per i bambini: tra i più comuni ricordiamo u iadduzzu, a forma di galletto per il bambino, e a pupidda, la bambola, per la bambina; e inoltre a cudduredda, che è una piccola ciambella, u ciuri, cioè il fiore, e a cacuoccila, il carciofo».88
Prima del terremoto del 1968, nella Valle del Belice ogni brava madre di famiglia soleva preparare anche la pupa di pani per la bambina. Ma non era il solo tipo di pane figurato di cui beneficiavano i bambini. Il campionario belicino allora comprendeva anche canestri (cannistri), borsette (burziteddi), chiocciole (babbaluci), galletti (adduzzi) ecc., confezionati con le stesse tecniche con cui si realizzava la pupa di pani; e, in tempi un po’ più lontani, lu pani di massaria a lunga conservazione, la cui pasta «si scanava cu li pedi, cioè si pestava con i piedi».89
Pani particolari di Modica erano u trippiridda (tre perette) a forma di trottola capovolta, a cruna rô Signori (corona del Signore), a tinagghia (tenaglia) e qualche altro esemplare del periodo natalizio. Per non fare andare a male l’intera infornata, a Racalmuto, nell’Agrigentino, ogni volta che si panificava, si faceva un pane apotropaico «a forma di tre dischi congiunti con petali» detto della «SS. Trinità».90
In quasi tutte le zone rurali dell’Isola i primi esemplari del cosiddetto pane nuovo, fatto cioè con il primo frumento dell’ultimo raccolto, venivano modellati a mò di pedi di voi e distribuiti ai poveri. Era senza dubbio un rito di ringraziamento e di propiziazione, come ogni altra forma di offerta delle primizie. A Cefalù si usava addirittura condurre in processione «un ostensorio di pane nuovo […] circondato e adorno delle più belle spighe dell’ultima messe».91 Tutto locale di Villafrati era forse l’uso di far passare da dietro la nuca il primo pezzetto di pane nuovo, quasi a voler dimostrare che si era dimenticato il sapore della grazia di Dio. Sì, perché, a detta dei nostri vecchi, si nascondevano appunto lì, dietro la nuca, le cose dimenticate.
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Note
1 Cfr. G. Oddo, Lo sviluppo incompiuto cit., p.109.
2 Cfr. G. Sand, La palude del diavolo , trad. it., Meravigli-Vimercate 1993, p.3.
3 Cfr. G. Pitrè, Usi e costumi cit., p.182.
4 Cfr. A. Buttitta, Introduzione a AA.VV. Le forme del lavoro-mestieri tradizionali in Sicilia, Palermo 1990, p.16.
5 Cfr. C. Veninata, L'agricoltura nel comune di Modica, Modica 1900, p.245.
6 Cfr. Ibidem, p. 273. Cfr. inoltre G. Oddo, L'aratro a chiodo cit.
7 Cfr. G. Pitrè, Usi e costumi cit., pp.127-128.
8 Cfr. Ibidem , p.295.
9 Cfr. Rotary Club di Ragusa (a cura di) Giornale del viaggio fatto in Sicilia e particolarmente nella Contea di Modica dall'Ab. Paolo Balsamo, Catania 1969, p.4.
10 Cfr. S. Salomone Marino, Costumi e usanze dei contadini di Sicilia, Palermo 1968, p.125.
11 Cfr. Ibidem, p.126.
12 Cfr. G. Pitrè, Usi e costumi cit., p.133.
13 Cfr. A. Cusumano, Il museo etnoantropologico della Valle del Belice, a cura di G. D'Agostino e J. Vibaek, Palermo 1986, p.25.
14 Cfr. A. Battaglia, L'evoluzione sociale cit., p.212.
15 Cfr. C. Veninata, L 'agricoltura cit., p.133.
16 Cfr. E. De Martino, La terra del rimorso , Milano 1961, p.158.
17 Cfr. S. Salomone Marino, Costumi e usanze cit., pp.89-97.
18 Cfr. E. Vittorini in Il Politecnico, n.12, citato da M. La Magna, Mezzogiorno, storia e cultura, saggistica e narrativa dall'unità d'Italia ai nostri giorni, Milano 1981, p.7.
19 Cfr. N. Sangiorgio, Lercara Friddi itinerari storici e tradizionali, Palermo 1990, p.288.
20 Cfr. C. Veninata, L 'agricoltura cit., p.136.
21 Cfr. G. Pitrè, Usi e costumi cit., p.167.
22 Cfr. G. Oddo, Il blasone perduto cit., p.150.
23 Cfr. Atti della giunta per la inchiesta sulle condizioni della classe agricola, volume III, tomo I, fascicolo I, Roma 1985, p.555.
24 Cfr. G. Dormiente-P. Scucces, Canti parole e gesti. Esperienze nella campagna modicana , Modica Alta 1980, p.47.
25 Cfr. S. Salomone Marino, Costumi e usanze cit., p.101.
26 Cfr. G. Dormiente-P. Scucces, op. cit., p.47.
27 Come son finiti i covoni raggruppati nei campi, così è finito il tempo di mangiare pasta. Cfr. A. Uccello, Risorgimento e Società nei canti popolari siciliani, Catania 1978, p.34.
28 Fai la paglia e te ne vai / te ne vai al fresco / dove stanno nobili e signori. Cfr. Ibidem . Sui canti delle messi e dell'aia cfr. inoltre E. Guggino, Canti del lavoro in Sicilia in AA. VV. Demologia e folklore, Palermo 1974, pp. 315-336.
29 Cfr. E. Costanzo-M. Liberto, I prodotti dell'Isola del sole cit., pp.39-40.
30 Cfr. Ibidem, p.40.
31 Cfr. R. La Duca (a cura di) Almanacco popolare palermitano, Palermo 1980.
32 Cfr. G. Pitrè, Usi e costumi cit., p.145.
33 Cfr. Alia cit., p.42.
34 Cfr. J. G. Frazer, Il ramo d'oro, cit., p.101.
35 Cfr. G. Pitrè, Usi e costumi cit., p.148.
36 Cfr. G. Granozzi, L'agricoltura-La proprietà fondiaria nel Comune di S. Ninfa, Palermo 1981 (prima edizione 1911), pp.131-135.
37 Cfr. S. Salomone Marino, Costumi e usanze cit., p.189.
38 Cfr. G. Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane , Palermo 1978, p. 262.
39 Cfr. Ibidem, pp.262-263.
40 Cfr. G. Pitrè, Usi e costumi cit., p.146.
41 Cfr. G. Inzenga, S. Antonino e Cerere in Giornale di Sicilia, 8 giugno 1880.
42 Sant'Antonino, Sant'Antonino, / al gran Dio voi siete vicino: / grossa la spiga, bionda la granagione, / ed ogni cuore si allegra e si sana! / Sant'Antonino, Sant'Antonino / bella la spiga e il chicco ben pieno… Cfr. S. Salomone Marino, Costumi e usanze cit., p.90.
43 Cfr. G. Pitrè, Feste patronali in Sicilia, Palermo 1982, pp.518-526. 44 Cfr. G. Pitrè, Usi e costumi cit., p.158.
45 Cfr. V. Graziano, Canti e leggende usi e costumi di Ciminna, Palermo 1935, p.74.
46 Cfr. S. M. Gebbia, Mezzojuso origine aspetti folklore, Palermo 1976, p.96.
47 Cfr. G. Pitrè, Spettacoli e feste cit., p.359.
48 Sui voti di grano cfr. O. Granata, Valledolmo dall'origine ai nostri giorni, Palermo 1982, p.161.
49 Cfr. M. Liberto, Valle del Sosio natura cultura e potenzialità agrituristiche, Palermo 2000, pp.77 e 149.
50 Cfr. G. Pitrè, Spettacoli e feste cit., p.360.
51 Cfr. C. Barberis, Introduzione a INSOR, Atlante dei prodotti tipici. Il pane, Roma 2000, p.14.
52 Cfr. INSOR, Atlante cit., p.33.
53 Cfr. V. Teti, Il pane, la beffa e la festa, Firenze 1976, p.355.
54 Cfr. Viaggio della Sicilia del Cavaliere Carlo Rezzonico, Palermo 1995, pp.70-71.
55 Cfr. Ibidem, p.62.
56 Cfr. Ibidem, pp.18-19.
57 Cfr. P. Balsamo, Memorie inedite di Pubblica Economia ed Agricoltura , I, Palermo 1983, pp.133-134.
58 A proposito dei favalori cfr. G. Oddo, Fave, favalori e generali in Nuova Agricoltura, 1999, n.7, pp.60-62.
59 Cfr. L. Lumia, Villalba storia e memoria, Caltanissetta 1990, pp.69-70.
60 Cfr. Ibidem, p.278.
61 Cfr. A. Battaglia, L'evoluzione sociale cit., p.210.
62 Cfr. A. Rossi, L'agitazione cit., p.68.
63 Cfr. N. Colajanni, Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause, Palermo 1894, p.58.
64 Cfr. S. Sonnino, I contadini in Sicilia, Firenze 1877, pp.193-194.
65 Cfr. S. Salomone Marino, Costumi e usanze cit., p.83.
66 Cfr. P. Revelli, Il comune di Modica descrizione fisico-antropica, Milano-Palermo-Napoli 1904, p.165.
67 Cfr. G. Verga, I Malavoglia letti da Giuseppe Giarrizzo e Franco Lo Piparo, Palermo 1981.
68 Cfr. A. Cusumano in A. Buttitta-A. Cusumano, op. cit., p.68.
69 Cfr. G. Di Giorgio, Chiusa Sclafani in cucina. Usanze, tradizioni e ricette, Palermo 1995, p.32.
70 Cfr. S. A. Guastella, Le parità cit., p.31.
71 Cfr. M. Gangi, Le fasi cit.
72 Cfr. G. Raniolo, Introduzione alle consuetudini ed agli istituti della Contea di Modica, Modica 1997, p.62.
73 Cfr. S. A. Guastella, Le parità cit., p.30.
74 Cfr. P. Revelli, Il comune di Modica cit., p.246.
75 Cfr. S. A. Guastella, Le parità cit., p.32.
76 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci tradizionali di Modica. Appunti di folklore siciliano in Rivista di Etnografia, vol. XVIII, 1964, p.123 e n.35.
77 Cfr. S. A. Guastella, Canti popolari del circondario di Modica, Modica 1876, p. LV.
78 Cfr. S. Salomone Marino, Costumi e usanze cit., pp.53-59.
79 Cfr. G. Valussi, La casa rurale nella Sicilia occidentale, Firenze 1968, p.75.
80 Cfr. G. Di Giorgio, Chiusa Sclafani cit., p.27.
81 Cfr. S. Salomone Marino, Costumi e usanze cit., p.67.
82 Cfr. G. Pitrè, C artelli, pasquinate, canti, leggende, usi del popolo siciliano, Palermo 1978, pp.327-328.
83 Cfr. G. Pitrè, Usi e costumi-Credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol. IV, Siracusa 1993, pp.246-258.
84 Cfr. A. Cusumano, op. cit., p.68.
85 Cfr. G. Pitrè, Usi e costumi cit., vol. IV cit., p.348
86 Cfr. A. Cusumano, Il museo cit., pp.45-46.
87 Cfr. G. Pitrè, Catalogo illustrato della Mostra Etnografica Siciliana, Palermo 1892, pp.59-60.
88 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., p.36.
89 Cfr. A. Cusumano, Pani e dolci della Valle del Belice in Piccola biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, Nando Russo Editore, n.6, pp.29-30 e 61. Nella p.61 è riprodotta la scheda sulla pupa di pani.
90 Cfr. A. Uccello, Pani e dolci di Sicilia cit., p.35-36.
91 Cfr. G. Pitrè, C artelli, pasquinate cit., pp. 258-259.
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