La produzione del pane casereccio in
Sicilia è caratterizzata da una diffusione che interessa, sebbene con carattere
alquanto discontinuo e frammentato, tutto il territorio regionale, specialmente
le piccole realtà rurali ed i paesi di provincia. La produzione di pane
casereccio, oggi, è sempre meno relegata alla sola dimensione familiare ed è
riconducibile a piccole ditte produttrici, panifici e fornai di paese che,
provvisti di adeguati forni a legna, delle conoscenze e della sensibilità volta
a mantenere le tradizioni, sono i veri custodi del patrimonio storico-culturale
di questo prodotto tipico. In letteratura sono presenti esaurienti
descrizioni delle tecniche per la produzione di pane casereccio siciliano (cfr.
Abbate & Giudici, 1998; Buttitta & Cusumano, 1991, Uccello, 1976). Il
pane casereccio siciliano è preparato esclusivamente con semola rimacinata di
grano duro. Prima di procedere all’impasto la semola viene setacciata nel
cosiddetto crivu (setaccio). Un tempo venivano utilizzati differenti setacci per
separare le diverse frazioni della molitura: la farina integrale, ottenuta dalla
macina, veniva fatta passare attraverso setacci a maglie sempre più fitte per
separare canigghia (crusca), ranza (cruschello) e semola. Il tipo di
lievitazione impiegata è quella con lievito naturale, il crescenti (così
chiamato prevalentemente nella Sicilia occidentale) o cruscenti (area catanese
ed iblea); altri nomi per indicare il lievito naturale sono luvatu, luvatina,
stadduni. Il lievito di casa è solitamente conservato in una ciotola di
terracotta che in estate viene ricoperta con un panno per evitare
l’indurimento. Poco comune, ma non del tutto scomparso nel territorio
siciliano, è l’impiego di crescenti maturi, stabilizzati, mantenuti da continui
“rinfreschi” e ottenuti, in origine, attraverso pratiche tradizionali (utilizzo
di latte acido, mosto, frutta matura, ecc.); più comune risulta essere, oggi,
l’utilizzo della biga, preparata generalmente il giorno prima, prelevando una
porzione di impasto destinato alla panificazione (spesso contenente già una
frazione di lievito di birra) e lasciato inacidire naturalmente. L’impiego di
questo metodo è, naturalmente, una pratica di più recente origine. In alcune
aree, per la preparazione dell’impasto, il lievito naturale viene stemperato con
acqua tiepida, in altre viene aggiunto tal quale, alla semola e all’acqua.
L’acqua può essere aggiunta a piccole quantità (nella maggior parte dei casi)
oppure in un’unica soluzione. In origine l’impasto era amalgamato manualmente
nella maidda, un recipiente di legno con i bordi bassi che conteneva gli
ingredienti. L’impasto veniva portato poi dalla maidda alla sbriga o briula, una
tavola a forma di figura femminile, alla cui testa, tra due tavolette parallele
è disposta l’estremità di una stanga robusta, detto sbriuni o sbriguni. Chi era
sprovvisto della sbriga utilizzava un’altra tecnica “a pugnatura”, conficcando
energicamente i pugni chiusi nell’impasto. Quando la pasta era stata raffinata
si portava all’impanaturi e qui si tagliava a pezzi per ricavarne le forme
volute. Le forme, ottenute per spezzatura manuale, possono essere rotonde
(vastedda), ad anello (cucciddati) o allungate (filoni); spesso sulla faccia
dorsale dei pani sono aggiunti semi si sesamo (giuggiulena) o di papavero
(paparina). La lievitazione procede per periodi di tempo che variano, in
funzione dell’area considerata e della stagione, compresi tra 1 ora e mezza e 4
ore circa, sistemando le forme su teli di cotone, adagiati su ripiani di legno.
In inverno, in particolare nelle Madonie, nei Nebrodi ed in altre aree montane,
vengono impiegate coperte di lana per facilitare la lievitazione. Per verificare
quando l’impasto è pronto per essere infornato si tubia, cioè si batte con le
mani: la tonalità, più o meno cupa, indica il momento ottimale. La cottura
avviene in forni a legna a fuoco diretto, alimentati prevalentemente con ulivo,
ilice e quercia; quando la volta del forno si colora di bianco - “furnu
camiatu”- si scopa il piano di cottura e si procede all’infornata. La brace
raccolta all’imboccatura del forno spesso viene addossata al coperchio di ferro,
per evitare perdite di calore. Spesso, alla fine della cottura, alcuni
panificatori aprono la bocca del forno e voltano i pani per far si che non sia
la sola faccia inferiore a cuocere; in alcuni casi, a metà cottura, il
panificatore ha cura di effettuare un’operazione di rotazione dei pani
all’interno del forno (svotata o girata do’ furnu), cambiando di posto i pezzi
introdotti per primi con quelli infornati per ultimi: tale operazione permette
una cottura omogenea dei pani introdotti. È in uso in molte aree della Sicilia
attaccare alla bocca del forno a legna un piccolo pezzo di impasto per
controllare il tempo di cottura: infatti, quando il cosiddetto “pizzicotto di
pane” si stacca si considera completa la cottura del pane. Per la cottura del
pane, in molti paesi, erano un tempo adoperati i cosiddetti “forni di
quartiere”; quando questi erano pronti per l’infornata il proprietario suonava
una trombetta dal suono caratteristico, avvertendo così le massaie, che
abitavano nelle vicinanze, che il forno era caldo e che si poteva infurnari.
Era uso anche obbligare le massaie a punzonare con un segno il proprio
pane in modo tale che alla sfornata potesse essere facilmente riconosciuto.
Queste tradizioni, oggi in fase di regressione in tutto il territorio regionale
siciliano, conferivano all’ambiente forti riferimenti culturali e sociali; in
particolare il profumo del pane appena sfornato, frammisto all’aroma della legna
bruciata, caratterizzava l’atmosfera che appariva, pertanto, particolarmente
ricca di sacralità. Esistono in Sicilia due grandi tipologie di pane
casereccio, contraddistinte entrambe da precise metodiche di produzione e
caratteristici profili sensoriali. La distinzione fondamentale è essenzialmente
riconducibile al quantitativo di acqua utilizzata per ottenere l’impasto e,
probabilmente (ma questo richiederebbe mirate ed adeguate indagini per una
verifica), anche alla varietà di grano duro impiegata. È possibile individuare
un pane casereccio siciliano a pasta dura, prodotto mediante un impasto che
contiene un tenore di acqua inferiore al 50 %, ed un pane casereccio
propriamente detto (o, per essere più precisi, con tale nome identificato)
caratterizzato da un impasto più morbido, con tenore di acqua generalmente
superiore al 50-60 %. Le caratteristiche sensoriali, l’aspetto e i nomi di
quest’ultima tipologia di pane casereccio, spesso, variano da zona in zona
contribuendo ad arricchire le produzioni tipiche siciliane. Per ogni pane
casereccio prodotto restano, comunque, quali elementi comuni, l’utilizzo di
grano duro locale, di forni a legna a fuoco diretto e di lievito
naturale.
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