Il grano nella terra di Cerere
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Per gli uomini d' Occidente la Sicilia è sempre stata terra prediletta da Cerere, dea delle messi e del pane. Ad assegnarle questo blasone ha contribuito decisamente il V libro delle Metamorfosi di Ovidio che rilancia il mito greco del ratto di Persefone, figlia di Demetra e di Zeus, da parte di Ade, dio degli abissi. Nel racconto ovidiano i personaggi hanno però nomi latini: la fanciulla, rapita in riva al lago di Pergusa (Enna) mentre raccoglieva «bianchi gigli e viole», diventa Prosperina; la madre Cerere; il focoso rapitore Plutone. Non cambia invece la sostanza dei fatti narrati.
Prosperina viene trascinata a forza da Plutone nelle profondità del Tartaro. Cerere, disperata, si mette a cercare dappertutto la figlia, senza che nessuno sappia o voglia dirle dove si trova. Delusa degli uomini, indegni dei suoi doni, l'addolorata madre distrugge i campi di grano. Ad ovviare all'inconveniente venuto a determinarsi per la grave decisione della Dea è alla fine Giove, il quale stabilisce che Prosperina rimanga per metà dell'anno insieme con il marito negli abissi e per il resto con la madre sulla terra. E il grano torna a crescere.
È chiaro che l'assenza della fanciulla evochi — come la scomparsa di altri eroi mitici — la vicenda del seme che ogni anno muore per rinascere puntualmente a nuova vita, salvando l'uomo dalla morte per fame. «Di questa concezione ciclica della vita – osserva Antonino Buttitta, – il seme, e in tutte le società arcaiche il grano in semi, era sentito come una metafora visibile e concreta. Da un lato il suo aspetto inerte, la sua morte apparente, erano una denuncia drammatica della vita vegetale; dall'altra la potenza di vegetare racchiusa in esso lo identificava come fonte di vita. Era il territorio di nessuno nella zona di frontiera tra il vivere e il morire […] Nel processo di riconduzione dall'invisibile al visibile, a un visibile tutto umano, l'identificazione di questo dramma in un dio antropomorficamente rappresentato è conseguenziale». Nel momento più critico della vicenda della vegetazione, quando l'arco del tempo sembra chiudersi, «il dio creatore della vita e salvatore dalla morte, da Tammuz a Cristo, doveva morire per poi rinascere. La sua morte e resurrezione erano, infatti, la riprova del suo potere di convertire la morte in vita».1
Alla stessa concezione ciclica della vita, basata sul consumo del tempo e sulla sua periodica rifondazione risponde il mito di Adone.2 In Sicilia esso rivive attraverso i cosiddetti lavureddi , semi di grano germogliati al buio assieme ad altri cereali, evocativi appunto degli antichi «giardini di Adone». Compaiono nei «sepolcri» allestiti dentro le chiese il Giovedì Santo, negli altari di S. Giuseppe il 19 marzo e, a termine delle funzioni religiose in onore di S. Giovanni, nella festa del Muzzuni , il 24 giugno ad Alcara Li Fusi.3 «L'esperienza agraria resta fondamentale anche nella strutturazione dei fatti religiosi, presso qualsiasi civiltà agricola»,4 a prescindere dalle specificità geografiche e storiche. In proposito non dovrebbero esserci più dubbi, alla luce degli studi di Mircea Eliade e di Vladimir Jarovevlic Propp.
Tuttavia, il radicamento nell'Isola del culto di Cerere era più forte che altrove, ove si consideri che già all' indomani della colonizzazione greca la gerarchia sacerdotale siciliana contestava la supremazia del Tempio di Eleusi (che per i pagani era l' equivalente di quello che sarebbe stata la Mecca per i musulmani) sostenendo che «era in Sicilia che l'uomo aveva ricevuto per la prima volta il dono del grano e che fu ad Enna che Plutone rapì Persefone e la portò via con sé».5 La popolarità della dea del pane era un omaggio profondamente sentito alla Madre Terra, ma anche alla fertile terra di Sicilia dove il grano cresceva meglio che in altre parti del mondo. Si spiega così il grande successo che riscuoteva ogni anno l'appuntamento primaverile delle Tesmoforie, feste in onore di Demetra e di Persefone, nel corso delle quali i Siciliani, oltre a piangere per l'assenza della dea rapita, offrivano a sua madre grossi canestri di mylloi , focacce con miele e sesamo raffiguranti le pudende femminili. E accompagnavano le offerte con gesti osceni e linguaggio licenzioso, allo scopo di far ridere la dea addolorata. Riti del genere erano, ad onor del vero, conosciuti anche altrove. Suscitare il riso equivaleva a far sorgere la vita, «la vita vegetale», per essere più precisi: «per far crescere l'erba e il grano bisognava far ridere la dea della terra».6
Ma in Sicilia il culto di Demetra-Cerere non tramontò nemmeno dopo l'affermazione della religione cristiana. E continua tuttora a vivere in certe tradizioni rurali come la Sagra delle spighe7 che ogni anno si svolge a Gangi (Palermo) nel mese d'agosto e soprattutto nella Festa del grano di Raddusa (Catania), le cui manifestazioni annoverano uno spettacolo folklorico che va sotto il titolo di Ratto di Prosperpina . A giudicare dall'apparato celebrativo della sagra gangitana non c'è dubbio che si tratti della reiterazione di un rito agrario. Tradizioni analoghe sopravvivono nel sud del Lazio (Minturno, Sezze Romano). Anzi la Sagra delle regne di Sezze (Latina) è quasi identica alla festa gangitana, non foss'altro perché vi compaiono, con il loro caratteristico carico di covoni, le treglie , arcaici carri senza ruote a trazione animale, adorni di festoni, «che sfilano in processione fra canti e suoni per le vie del paese».8 Se proprio una differenza si vuol trovare tra le due sagre bisogna cercarla nel nome dei carri che in Sicilia si chiamano strauli. Il termine che indica il covone è invece lo stesso: regna , anche se il suo plurale nel dialetto siciliano suona regni, anziché regne.
Ma è proprio uguale il peso della tradizione cerealicola in Sicilia e nel sud del Lazio? Francamente no. Il paragone non regge neanche con altre regioni d'Europa. Solo la Sicilia poté, infatti, ispirare a Goethe un pensiero come questo: «ci saremmo augurati il carro alato di Trittolemo, per sottrarci a tanta monotonia» di campi coltivati a cereali.9 E non mancava certo di perspicacia il grande poeta tedesco. Militare dell'esercito prussiano, nel 1792 «osservò giustamente che il confine tra la Germania e la Francia era una frontiera fra la segala e il frumento».10 Ma non gli passò nemmeno per la testa di accennare, come aveva fatto cinque anni prima in Sicilia, a Trittolemo, il discepolo di Demetra cui la dea delle messi aveva affidato l'importante compito di girare il mondo su un carro trainato da draghi alati per diffondere la coltivazione del grano.
E poi in quale altra parte del mondo si è mai visto un clero così tollerante come quello catanese che, all'indomani della carestia del 1756, si dichiarò d'accordo; «per il bene pubblico», con l'aristocrazia terriera sulla necessità di commissionare allo scultore Giuseppe Orlando una fontana con la statua della dea Cerere? Certo, forse pochi catanesi sanno chi rappresenti la marmorea divinità: i più l'hanno sempre conosciuta come Tapallara , altri la chiamano Matapalla e, anche se hanno studiato il latino, non si sforzano di tradurre l'iscrizione con cui le si chiede di far «piovere ricchezza».11 Non c'è dubbio, però, che dopo essersi fatta ammirare per anni nell'attuale piazza Università, la dea che «un tempo dettò leggi e diede miti alimenti alla terra», fa tuttora bella mostra di sé nella piazza Cavour della Civita. Negli ultimi decenni del Settecento Cerere era ancora onorata, sia pure inconsapevolmente, come dimostrano la bella incisione e la gustosa descrizione fatta da Jean Houel a proposito di una festa campestre che l'artista ebbe modo di osservare durante il suo soggiorno catanese.
Nelle campagne che circondano la città, i contadini celebrano, dopo la mietitura, una festa popolare, una specie di orgia, in ringraziamento del buon raccolto fatto. Alcuni giovani, aprono la processione con balli ed evoluzioni; li segue un uomo che batte un tamburo a cavalcioni di un asino; cinque o sei altri, che montano anch'essi questo pacifico animale, vengono dietro impugnando lunghi bastoni ai quali sono attaccati fasci di grano. In mezzo a loro un altro uomo, sulla stessa cavalcatura, porta un grande stendardo che sventola maestosamente, mosso dal vento. Viene poi una giovane donna vestita di bianco e seduta su un asino; la circondano molti uomini a piedi che portano sulle teste e sulle braccia mannelli di grano che sembrano volerle offrire in omaggio. Una moltitudine di contadini segue a frotte il corteo suonando diversi strumenti.
La gente colta di Catania mi assicura che quest'usanza è antichissima; l'origine è ignota, ma non vi sono dubbi che si tratti di un ricordo delle antiche feste di Cerere e che la giovane donna raffiguri questa dea, alla quale i contadini offrivano le messi che credevano di aver ricevuto dalla sua generosità […] 12
Un secolo dopo, commentando a caldo la rivolta dei Fasci dei lavoratori, una dispensa pubblicata a Roma riprodusse una descrizione della Sicilia fatta nel 1876 dal geografo francese Elisée Reclus (1830-1905):
Si sa che la Sicilia fu in antico la predilezione di Cerere: è là, nella pianura di Catania, che la buona Dea insegnò agli uomini l'arte di arare il suolo, di spandervi i semi, di tagliare le messi. I siciliani non hanno dimenticato le lezioni di Demeter, poiché il suolo dell'isola per più che la metà è coltivato a cereali, ma convien dire che non han guari migliorato il sistema di coltura dalla Dea insegnato in epoche favolose. Ché, anzi, è loro presso a poco impossibile, di far meglio che i loro antenati, poiché in virtù del loro contratto col nobile proprietario, erede del feudatario normanno, i coltivatori sono nell'obbligo di eseguire l'antica routine dei lavori. Quasi tutti i loro strumenti sono di forma primitiva, i concimi son poco adoperati, e dopo che il seme è nella terra, il contadino lascia la cura del campo alla buona natura.
Quando percorrensi le campagne della Sicilia, si resta attoniti dalla mancanza assoluta di case. Non v'han villaggi, ma solamente a grandi distanze le une dalle altre, delle città popolate. Tutti gli agricoltori sono dei contadini che rientrano ogni sera, al modo antico, nel recinto della città. Ve n'han di quelli che son costretti di fare quotidianamente un doppio tragitto di dieci chilometri e anche di più, per recarsi a vedere il loro campo e tornarsene a casa. Solo, talvolta, loro avviene di risparmiarsi la corsa del ritorno: passando la notte in qualche caverna, od in un fosso coperto di fronde. Durante la messe e le vendemmie, delle tettoie improvvisate servono ad ospitare i lavoratori.
I vasti campi dei cereali che riempiono le valli e coprono le pendici vanno debitori a quest'assenza d'abitazioni umane di un carattere tutto speciale di tristezza e di solennità.
Direbbesi una terra abbandonata e chiedesi per chi quelle spighe maturino.13
C'è in questa descrizione del «principe dei moderni geografi», una grande consapevolezza del male antico che affliggeva la Sicilia del latifondo e del grano e che, proprio in quegli anni, veniva portato alla ribalta della storia dall 'Inchiesta agraria governativa condotta dal siciliano Abele Damiani e da quella privata dei toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. Ma le denunce non bastarono ad estirpare il cancro del latifondo ex feudale. Bisognava aspettare la metà del secolo successivo perché si aprissero nuovi orizzonti alle campagne siciliane.
* * *
Se è vero che per molti secoli la coltivazione del grano ha costituito la principale ricchezza della Sicilia, è forse utile tentare di risalire alle sue origini. Senza avventurarsi nei secoli bui della preistoria, si può convenire con Orazio Cancila che il prezioso cereale fu forse introdotto nell'Isola «assieme alla vite dai Fenici, che lo portarono dalla Palestina tra l'XI e il IX secolo a.C.».14
All'inizio le rese dovevano essere abbastanza buone, perché la terra non era ancora sfruttata. Plinio favoleggia che nell'agro di Lentini i terreni rendessero addirittura cento volte il seme messo a dimora. Teofrasto parla del trenta per uno relativamente ai dintorni di Milazzo. Ma più verosimili sembrano le informazioni di Cicerone, il quale «indica una resa massima del dieci». Comunque sia, non c'è dubbio che l'Isola presentasse una grande vocazione cerealicola che fu poi rilanciata dai dominatori greci e romani.
«Oltre a rifornire la Grecia e le città dell'Africa, la Sicilia, già secoli prima di esser conquistata militarmente, in anni di carestia inviava grano anche a Roma. Sotto Gerone II (269-215 a.C.) — che dotò la sua città di granai che ricordano i moderni silos — Siracusa inviava grano a Rodi, a Cartagine, ad Alessandria e soprattutto a Roma, che cominciava già a essere il principale mercato di esportazione».15 Un altro cereale largamente coltivato fin dall'inizio dell'avventura cerealicola era l'orzo, che però veniva in gran parte consumato in loco. La proprietà della terra era soggetta alla decima , ossia al pagamento di un canone pari, appunto, alla decima parte del prodotto, in favore delle città-stato. Ad introdurre questo tributo, secondo la più accreditata storiografia, fu Gerone II di Siracusa. Circa le varietà di grano coltivate nella Sicilia ellenica sappiamo per certo che c'era il trimenaios dei Greci, la ben nota tumminìa , grano marzuolo, che tuttora si coltiva in piccole estensioni in qualche plaga dell'Isola.
Sottoposta a Roma, la Sicilia fu di fatto condannata alla monocoltura cerealicola e divenne il «granaio del popolo romano».16 La decima hieronica fu estesa all' intera isola e, accanto ad essa ne fu istituita una straordinaria che in realtà non era un tributo, ma la vendita della decima parte del raccolto al prezzo stabilito unilateralmente dal senato romano. Si trattava, tuttavia, di un diritto che Roma esercitava solo in casi eccezionali. Incaricati della riscossione della decima erano i decumani , appaltatori romani e siciliani, «i quali scaricavano i rischi di un cattivo raccolto sui contribuenti, cioè sugli aratores del territorio soggetti alla decima».17 Alcune città siciliane erano esonerate dalla corresponsione della decima ordinaria, ma non certo dalla vendita forzosa della decima parte del prodotto, qualora il senato ne avesse decretato la necessità. In queste condizioni si trovavano le città alleate (Messina, Taormina e Noto) e le città libere e immuni , cui era riconosciuto anche il diritto di proprietà della terra (Palermo, Centuripe, Alesa, Segesta e Alicia). C'erano però anche alcune città decumane (Agrigento, Eraclea, Enna, Gangi, Cefalù, Termini, ecc.) che, pur essendo proprietarie, erano soggette alla decima ordinaria, e le città censorie (Siracusa, Milazzo, Trapani, Marsala) che erano escluse da ogni privilegio essendo stato il loro territorio trasformato in ager pubblicus , proprietà del popolo romano, che veniva di solito ceduto ai cittadini dell'Urbe. L'affitto dell 'ager pubblicus ai privati aratores (in gran parte di Centuripe) e i privilegi accordati ai cavalieri romani favorirono la concentrazione del possesso della terra in poche mani e la conseguente scomparsa dei piccoli coltivatori. I latifondi, condotti con manodopera servile, continuarono tuttavia a produrre grano in funzione delle esigenze dell'Urbe e orzo per il fabbisogno alimentare dei Siciliani. Intanto i governatori e i burocrati inviati in Sicilia da Roma si rendevano responsabili di grossi latrocini come quelli denunciati da Cicerone nei confronti di Verre.
«Il passaggio dalla dominazione romana a quella gotica non ebbe significativi effetti sui rapporti di proprietà, anche se i Goti concessero qualche massa ai loro amici e terre incolte da dissodare ai coltivatori. L'agricoltura rifiorì e Jordanes poté chiamare la Sicilia “nutrice dei Goti”, perché con il suo grano approvvigionava l'Italia. Altro grano veniva esportato contemporaneamente in Gallia. Qualche anno dopo, il grano siciliano servì al generale bizantino Belisario per la sua spedizione in Africa contro i Vandali e successivamente alimentò le truppe che combattevano i Goti nella penisola e che spesso, assediate, riuscivano a resistere grazie ai rifornimenti granari inviati dalla Sicilia».18
Dopo la conquista bizantina (553) la Sicilia divenne provincia dell'Impero Romano d'Oriente. Furono estromessi dai latifondi i nobili romani e si formarono nuovi grossi proprietari terrieri locali. Buona parte delle terre passarono in mano al papato che però fu espropriato dall'imperatore nel 733, perché il pontefice non aveva approvato la politica imperiale contro il culto delle sacre immagini. Il patrimonio confiscato fu in parte distribuito ai soldati. Il che finì per promuovere la formazione di una discreta rete di piccole aziende, che producevano grano in condizioni di svantaggio rispetto ai latifondisti che si reggevano grazie al lavoro dei servi della gleba. Gli Arabi diversificarono il panorama produttivo grazie all'introduzione di nuove colture e favorirono il ripopolamento delle campagne, senza tuttavia modificare il paesaggio cerealicolo della Sicilia interna.
I Normanni istituirono il feudalesimo che finì per allargare notevolmente l'area del latifondo nobiliare favorendo anche la formazione di grosse aziende cerealicole facenti capo alla Chiesa. Federico II, che pure contrastò lo strapotere della nobiltà, si rese responsabile della distruzione del villanaggio arabo, contribuendo così a ripristinare il sostanziale assetto monocolturale dell'Isola. Dopo la lunga guerra del Vespro, che distrusse l'economia isolana, il sistema feudale e la produzione cerealicola furono rilanciati dagli Aragonesi. Non furono poi da meno gli Spagnoli.19
Sotto l'amministrazione aragonese, il grano siciliano cominciò ad essere esportato in grossi quantitativi in Spagna, con un sistema fiscale che consentiva scandalose esenzioni a favore dei latifondisti vicini alla corona, come il conte di Modica che fu autorizzato ad esportare in franchigia ogni anno ben 12 mila salme di granaglie.20 Furono potenziati i pubblici granai annessi ai porti (caricatori), controllati da un funzionario regio (maestro portulano), il quale rilasciava le licenze d'esportazione annotando il costo nel certificato liberatorio, detto tratta.21
Ciò finì per richiamare nell'Isola numerosi mercanti catalani, biscaglini, genovesi, pisani, alcuni dei quali divennero poi grossi proprietari terrieri, funzionari regi, e acquisirono persino titoli nobiliari.22 Insomma, «l'invadente coltura del grano» fece della Sicilia «almeno fino al 1590, e anche dopo, il Canada o l'Argentina dei mondi occidentali del Mare Interno».23
Oltre a dare un ulteriore impulso alla cerealicoltura, Carlo V istituì la panificazione a prezzi politici (pubblico panizzo) e la cosiddetta colonna frumentaria , alimentata dall'ammasso obbligatorio di un terzo della produzione granaria. Suo figlio, Filippo II, proseguì la tradizionale politica d'accaparramento del grano siciliano (anche per sostenere gli impegni bellici della Spagna), aumentò il dazio sulle esportazioni e istituì, nel 1564, la tassa sul macinato che «doveva dimostrarsi nei successivi tre secoli un grave peso sull'agricoltura e sul tenore di vita».24 Ma s'intestò anche una campagna di colonizzazione interna della Sicilia, finalizzata all'incremento della cerealicoltura, che vide sorgere, anche per l'impegno dei suoi successori e dei viceré residenti a Palermo, più di cento nuovi centri feudali, alcuni dei quali divennero nel volger di pochi decenni città.25
Il Seicento fu duramente segnato da epidemie, tra cui la peste, e da ricorrenti carestie cui si aggiungevano speculazioni di ogni tipo e artificiose variazioni del prezzo del grano: «gli frumentarij — si legge in una cronaca dell' epoca — non curandosi di venderlo d' alto prezzo, lo nascosero per volerne prezzo altissimo. Quando più si facevano inquisitioni dagli Regii Patrimoniali (perché essi pure sono fromentarij) tanto maggiormente si nascosero il grano: e la gente moria in tutto il regno».26 La crisi di sussistenza divenne particolarmente acuta negli anni quaranta. Nel 1644 a Palermo fu necessario peggiorare la qualità del pane. Due anni dopo, si diede praticamente fondo a tutte le scorte di grano. «A Messina le autorità cittadine bloccarono lo stretto e sequestrarono tutte le navi cariche di cibo di cui poterono impatronirsi. Anche Siracusa affermò di avere il diritto di fare lo stesso in virtù di un legittimo privilegio civico. Questo comportamento, per quanto comprensibile, fu controproducente perché fece sparire dal mercato forniture di grano delle Puglie, ma ogni città sostenne che se non fosse stato lei a farlo l' avrebbe fatto un' altra. Messina fu anche costretta a ridurre la razione del pane sovvenzionato e questo causò dei tumulti».27
Ma i fatti più gravi avvennero a Palermo.28 Non bastassero le carestie di quegli anni, nel febbraio 1647 piovve tanto da far morire le sementi già messe a dimora. Chi aveva ancora grano lo seminò di nuovo, ma non tutti poterono farlo. La primavera fu particolarmente siccitosa e gli aristocratici nascosero il grano residuo, per tema di vederselo requisire.
Molti contadini si riversarono in città ad elemosinare il pane nei conventi. Le schiere dei mendicanti crescevano di giorno in giorno. «L' arcivescovo di Palermo ordinò a tutti i cittadini, sotto pena di multa, di far penitenza. Incoronati di spine e portando dei teschi, straziandosi con catene di ferro, i cittadini passavano le giornate in continue processioni. Un osservatore vide uomini nudi, e per giunta nobili, che tiravano l' aratro bardati come animali, facendo finta di mangiare cesti di paglia, e mostrando altri “miserabili segni di penitenza”; e la principessa di Trabia diede graziosamente ristoro nella sua casa ad una processione di prostitute. Pietosa, venne un po' di pioggia, ma ad essa fece seguito un altro soffocante scirocco che bruciò quanto restava del raccolto».29
Sicché, quando il 19 maggio, fu giocoforza ridurre il peso della pagnotta (che si vendeva a prezzo politico) la povera gente temette di morir di fame. Appena «comparve nelle piazze il pane diminuito» alcuni popolani si recarono al Duomo «mettendo uno di quei negri pani in una punta di canna», lo mostrarono al SS. Crocifisso dicendo: «Questo è il pane dalla vostra grazia concessa?». Poi cominciarono a sfilare in corteo per principali vie cittadine gridando: «Pane grande, viva re di Spagna e fuora gabelle». E mentre le campane delle chiese invitavano il popolo alla rivolta, il viceré, marchese Los Velez, si affacciò al balcone del Palazzo reale per promettere l'abolizione delle gabelle sui generi alimentari. Ma sprecò il fiato. La folla aveva già incendiato il Municipio, distrutto gli uffici del dazio e assaltato le carceri liberando i carcerati. L'arcivescovo armò il clero. Alcuni nobili cercarono di calmare i tumultanti gettando monete, altri aristocratici se la diedero a gambe verso le loro residenze di campagna.
La protesta dilagò in tutta la Sicilia. Si registrarono tumulti a Catania, Randazzo, San Giovanni La Punta, Siracusa, Girgenti, Sciacca, Marsala, Trapani, Termini, … Si videro cartelli sediziosi anche nei villaggi. A ripristinare l'ordine nella Capitale furono poi le corporazioni artigiane e i pescatori. Il capo della rivolta, Antonino La Pilosa, fu giustiziato: trascinato «al Piano delle Bologne, gli furono prima strappate le carni con tenaglie di ferro infocate […] fu quindi strozzato ed il cadavere trascinato per la città attaccato alla coda di un bue».30
Ma non furono solo questi i tragici avvenimenti palermitani del 1647. Reduce da Napoli, dove aveva appena assistito alla rivolta di Masaniello (scoppiata il 7 luglio), il battiloro Giuseppe d'Alesi volle imitare l'esempio del capopopolo napoletano, organizzando una nuova rivolta, che ebbe inizio il 15 agosto con una manifestazione davanti al Palazzo reale e in pochi minuti divenne guerriglia urbana. I rivoltosi s'impadronirono subito dell'armeria del Senato, saccheggiarono i magazzini religiosi e della Dogana. Giuseppe d'Alesi «era solito cavalcare per le strade della città vestito di seta e d'argento, o ricoperto di una corazza completa con un fucile in ciascuna mano e un corteo di seguaci. Ricevette i titoli di “Illustrissimo”, capitano generale e sindaco di Palermo a vita».31 Ma fu gloria effimera, la sua. Convinto d'aver dalla sua parte il viceré, il battiloro invitò il popolo alla moderazione, in attesa che il governo varasse alcune riforme inerenti la diminuzione delle gabelle alimentari e la concessione di una maggiore autonomia locale con un più consistente peso delle corporazioni artigiane. E fece persino decapitare uno dei suoi più stretti collaboratori che non ne condivideva la linea politica.
Divenne perciò inviso al «basso popolo» e ad alcune corporazioni che non avevano aderito alla rivolta; e fu vittima di un complotto ordito dall'aristocrazia (estromessa dal Municipio) in combutta con gli Spagnoli e il grande inquisitore Trasmiera. Il 22 agosto fu catturato mentre si nascondeva in una fogna e decapitato insieme al console dei conciapelle; «le loro case furono distrutte e le loro teste impalate sull'inferriata nella piazza principale». I soli risultati conseguiti dalle rivolte del 1647 furono la nomina di un nuovo viceré nella persona del cardinale Trivulzio, l'espulsione dei vagabondi da Palermo e il permesso accordato ai contadini di lavorare nei campi anche di domenica e nei giorni festivi, in attesa che si ricostituissero le scorte di grano. Di più l'arcivescovo di Monreale «assolse il popolo dal peccato di rivoluzione ed esorcizzò pubblicamente sulla piazza principale i demoni e le streghe che avevano incitato i contadini a ribellarsi».32
Le rivoluzioni di Palermo e Napoli del 1647 furono represse anche con l'aiuto di Messina, le cui autorità si comportarono come governanti di una «città-Stato indipendente».33 Alla mancanza di grano continuavano a provvedere con azioni piratesche. Nel 1650 una nave denominata «San Francesco» fu catturata, durante le operazioni d'imbarco nel caricatore di Messina, «con tutto il carico di 1192 salme di frumento».34 Il colpo di mano fu attribuito a non meglio identificati «francesi». Non è escluso però che dietro questa etichetta si nascondessero le autorità messinesi, del resto non nuove a simili imprese.
Ad ogni buon conto, dopo una serie di cattivi raccolti, nel 1674 i rifornimenti alimentari a Messina toccarono il fondo e il popolo, aizzato dai nobili, si ribellò alla Spagna,35 allora in guerra contro la Francia di Luigi XIV. Con l'aiuto dei Francesi, e con una serie di intrighi internazionali in cui furono coinvolte anche la Turchia e l'Inghilterra, la città dello Stretto resistette all'assedio degli Spagnoli fino al 1678, provocando la distruzione della fiorente attività bachisericola e della poca cerealicoltura presente nel suo entroterra. Poco meno di un secolo dopo Messina avrebbe però accolto calorosamente il viceré Fogliani fuggito da Palermo nel corso di un'ennesima rivolta popolare per il pane.36
A scatenare la sollevazione del popolo palermitano fu lo scarso raccolto del 1773. Appena si accorsero che i rifornimenti alimentari della Capitale cominciavano a scarseggiare, «alcuni conciatori e armieri andarono scalzi e penitenti in processione portando corone di spine e percuotendosi a vicenda con catene, come si usava in tali circostanze; ma ancora una volta la preghiera si trasformò improvvisamente in violenza. La fame accese un'esaltazione religiosa che portò a una profanazione delle immagini dei santi e poi a qualcosa di simile a una rivoluzione sociale […] Monreale, Montelepre e altri villaggi vicini, come per un accordo prestabilito, diedero inizio a una guerriglia contro le autorità. Finalmente fu attaccato il palazzo, al solito grido “Viva il re e fuori il viceré”. Fogliani, per motivi umanitari, preferì capitolare che ordinare alle truppe di far fuoco, e fu scortato ignominiosamente fino al porto dai consoli delle corporazioni».37
Se il viceré si rifugiò a Messina, i grossi proprietari terrieri insigniti di altisonanti titoli nobiliari si erano guadagnati da giorni la pace nei loro «Stati» feudali, con viva gioia dei propri vassalli che li aspettavano fuori paese per portarli in portantina sino alle loro principesche dimore, certi di esser ricompensati con la distribuzione di qualche pugno di grano o di farina. Tra gli illustri fuggiaschi che andarono ad asserragliarsi con la famiglia e un lungo codazzo di servitori nelle ville di campagna, ci fu sicuramente don Vincenzo Clemente Filangeri Cottone, principe di Mirto, conte di San Marco, barone di Villafrati, cavaliere del Toson d'oro, Grande di Spagna di prima classe, ecc., il quale non dovette soffrire poi tanto, se poté permettersi di spendere in tre mesi, per la sola cioccolata, la somma ragguardevole di cinque onze e tre tari, equivalente a più di quanto percepiva in cinque mesi il suo magazziniere.38 A pagare tanto spreco furono, come sempre, i vassalli i quali, oltre a dover fare i conti spesso con la fame, non potevano cuocere il pane in forni diversi da quelli baronali, né comprare generi alimentari o carne — ammesso che avessero il denaro per farlo — fuori dallo zagato e dalla macelleria ( pianca) dell'eccellentissimo padrone.39
Ma tutti i feudatari siciliani furono titolari di «diritti proibitivi» fino al 1812. E quando non avevano il privilegio esclusivo della cottura del pane, disponevano di quello della molitura dei cereali. A Resuttano, per esempio, era proibito ai vassalli «di poter andare a molire frumenti ed altri generi […] in altri molini fuori territorio, sotto la pena di onze quattro e di perdere li suddetti generi e le cavalcature sopra cui si troverà il contrabbando».40 Nessuno poteva «entrar farina di fuori territorio», senza pagare preventivamente il dazio. I contravventori incorrevano nella «pena di onze due e perdere suddetta farina e bisacce». Si doveva pagare il dazio anche nel caso che si portasse da fuori territorio un pane del valore di più di quattro grana, cioè «giusta la porzione per quanto un uomo può la sera cenare», oppure «molti pezzi di pane che uniti insieme confrontassero e componessero un pane sano». Insomma, entrando a Resuttano, non pagava dazio solo chi avesse con sé meno di quattro grana di pane. «E se portasse diversi pezzi di pane alla quantità di due o più pani — disponeva nel 1762 Federico di Napoli, principe di Resuttano — , nonostante che detti pezzi non confrontassero, dovrà pure gabellarsi [pagare il dazio], sotto la pena che trovandosi tal persona entrata già nelle terre communi col detto pane sano o pezzi di pane come sopra si è detto, e non avrà intercesso la licenza dal gabelloto del macino, di perdere suddetto pane e di onze due in denari acquistati al suddetto gabelloto. Avvertendosi che per il presente capitolo si parla per tutte le persone, tanto naturali quanto forestieri, ch'entreranno suddetto pane da fuori territorio che fu colà macinato e manipolato, non però per li borgesi [contadini poveri] e giornalieri naturali di questa che andando a travagliare fuori territorio, portandosi da questa il pane, ritornano da fuori territorio con quello che gli è rimasto, mentre questi ultimi vi bisognerebbe una pruova particolare di non esser lo stesso pane che si portarono da questa per condannarsi alla citata pena».41
A Condrò, nel Messinese, terra di cui era pure principe Federico di Napoli, era permessa la libera panificazione domestica, ma solo ad uso familiare. «Nessun panettiere o sia fornaro — ordinava infatti l'eccellentissimo padrone — possa panizzare frumento per servizio al pubblico senza prima pigliar licenza dal gabelloto. E ciò ogni volta che sfarà suddetto frumento con pagargli il dritto a ragione di grani cinque per ogni tumolo. E contravvenendo alla presente disposizione, si senta incorso nella pena di onze una per ogni volta che contravverrà, d'applicarsi terza parte al denunciatore e l'altre due terze parti al gabelloto. Per l'esigenza della qual pena basterà la pruova con due testimoni».42
I privilegi feudali furono aboliti dalla costituzione del 1812. Ma i nobili divennero proprietari delle terre che prima avevano in concessione. E il latifondo cerealicolo continuò a caratterizzare molte plaghe di Sicilia che dopo l'unità d'Italia si sarebbero rilevati ad alta densità mafiosa. La sola novità di rilievo rispetto al passato fu il passaggio di alcuni ex feudi nelle mani di alcuni borghesi che si erano arricchiti all'ombra dei privilegi feudali. Molti comuni continuarono ad essere amministrati da uomini del passato regime, adusi ad esercitare il potere nell'interesse esclusivo dei loro clan familiari.
Ad Alia, per esempio, ancora quarant'anni dopo l'abolizione della feudalità, i fornai erano obbligati a vendere il pane esclusivamente in determinati luoghi e con tanto di bollo dei gabelloti delle imposte comunali, cui i primi dovevano corrispondere «un tarì e grana 10 per onza in valore del pane suddetto, e grana 10 al posto per la vendita». Non rispettare quest'obbligo significava incorrere nella «pena pecuniaria di tarì 29, e la perdita del pane a danno del contravventore» che, fra l'altro, era costretto a molire il grano nel mulino dei gabelloti. Insomma, come scrissero i fornai al luogotenente, nel 1852 ad Alia si continuavano ad esercitare «le proibitive, privative e zagato per bizzaria; e ciò non dal Barone, ma dal Comune medesimo». Ebbene, dopo che furono aboliti questi assurdi retaggi feudali, gli appaltatori delle gabelle civiche «fecero il grande passo d'investire i loro capitali nell'affitto e nell'acquisto di terre e di veri e propri latifondi, un tempo dominio dei baroni della zona».43
Dopo l'unità d'Italia quasi tutti gli ex feudi siciliani cominciarono ad esser condotti in affitto dai gabelloti che, a loro volta, li lottizzavano e li subaffittavano o li concedevano a metateria ai contadini. Questa forma d'intermediazione veniva praticata da secoli, ma ora era generalizzata perché una legge dello Stato consentiva ai proprietari di scaricare il peso dell'imposta di ricchezza mobile sui gabelloti e questi sapevano come farla pagare ai borgesi. Si vennero perciò a stabilire patti agrari, diversi da paese a paese, ma dovunque particolarmente onerosi per i contadini. Nel cuore della Sicilia del grano, al confine tra le province di Palermo, Agrigento e Caltanissetta, «dove si era maggiormente sviluppato il fenomeno della mafia», secondo il prefetto di Palermo, nel 1875 si praticavano questi rapporti tra i gabelloti e i contadini:
1) Il pagamento del paravanti ossia di quattro tumoli di frumento prima della divisione del raccolto;
2) Il raccolto è diviso per tre quarti al padrone, per un quarto al borgese;
3) Il borgese paga un tumolo per ogni salma per le spese di guardiania o custodia dei fondi;
4) Il borgese paga la crivellatura, il trasporto dei grani, etc…;
5) La semente per le terre da ristoppie è fornita dal padrone, ma coll'obbligo della restituzione al raccolto del doppio. Si noti che è uso dei gabelloti consegnare la semente bagnata per aumentare il volume e così avere un'altra maggiore usura nella restituzione;
6) Per la coltura a fave la semente è pure fornita dal padrone, ma compensata dal borgese come sopra, in ragione di quattro tumoli a salma;
7) Sulle fave il borgese paga pure un diritto detto terraggiolo, ossia dieci tumoli colmi di fave;
8) L'alternativa delle terre consiste generalmente nella semina di un anno a fave, dell'altro a frumento;
9) Gli arnesi rurali, le bestie da tiro, l'aratura, sono a carico dei borgesi.44
Condizioni sostanzialmente analoghe riscontrò nel 1893 Adolfo Rossi, inviato speciale del giornale romano La Tribuna , a Corleone e a Piana dei Greci. E non troppo diverse erano quelle di Villafrati.45 Qui un ufficiale dell'esercito nel mese di luglio 1893 ebbe modo di constatare come andavano veramente le cose: «Finita la misurazione, non rimase al contadino che un tumulo di grano. Tutto il resto era andato al padrone. Il contadino, con le mani e il mento appoggiati al manico di una pala, guardò da principio come inebetito, quell'unico tumolo della sua parte, poi guardò sua moglie e i suoi quattro o cinque figli che se ne stavano in disparte, e pensando che dopo un anno di stenti e di sudore non gli era avanzato per mantenere la famiglia che quel tumolo di grano, rimase come impietrito: solo due lacrime gli scendevano silenziosamente dagli occhi. Finché campo non dimenticherò mai quella scena muta. E si noti che dopo la divisione non solo i contadini rimangono senza grano, ma restano pure in debito».46
Il nodo del latifondo venne al pettine grazie al movimento dei Fasci dei Lavoratori repressi da Crispi nel gennaio 1894. Nel mese di luglio dello stesso anno il medesimo presidente del consiglio presentò in Parlamento un progetto di legge con cui si proponeva di «eccitare l'incremento della produzione agraria […], creare fra i contadini, come il più pratico temperamento dei danni della grande proprietà, una classe di piccoli proprietari affezionati alla terra, interessati alla coltura intensiva, elementi di ordine e di pace sociale; eliminare […] il sistema dei grandi affitti o gabelle con la relativa graduazione onerosa delle sub-gabelle , agevolando e anche imponendo con determinate garanzie la locazione diretta fra i vari lavoratori del suolo; promuovere con la facilitazione del credito e con altre agevolezze la trasformazione delle colture, il ripopolamento delle campagne ed ogni altra miglioria agraria; eccitare nelle considerevoli iniziative degli interessati e nelle possibili applicazioni alla vita agricola il concorso delle varie forme di cooperazione all'elevamento economico e sociale delle classi rurali in Sicilia».47
Non se ne fece niente. Perciò molti contadini emigrarono altre oceano. Altri crearono strumenti simili alle Casse di resistenza , come quella promossa dal Fascio dei lavoratori di Corleone che nel mese di ottobre 1893 aveva raccolto 300 salme di frumento e 25.000 lire e l'inverno precedente aveva già somministrato ai soci soccorsi in grano «a miglior prezzo dei proprietari stessi».48 Ad intraprendere questa strada furono i contadini di Alia servendosi della Società di mutuo soccorso «l'Avvenire», costituita il 5 febbraio 1893. Questa nei primi anni del Novecento disponeva di un capitale sociale di oltre 20 mila lire e più di 220 salme di grano, che prestava ai soci a condizioni molto vantaggiose, contribuendo così alla «totale scomparsa dell'usura, abbastanza esosa un tempo». E non è escluso che questo sodalizio abbia messo in crisi i Monti di prestanza privati facenti capo ai grossi gabelloti e ai proprietari terrieri. Uno di questi monti, «quello del Cav. Guccione Gioacchino fu Matteo», prima aveva «un capitale di salme 1000 in frumento e di salme 200 in fave ed altri generi» e all'inizio del Novecento poteva impiegare «appena un centinaio di salme di solo frumento». Gli altri erano «tutti scomparsi come per incanto». E si capisce bene perché, considerato che lo stesso Monte di prestanza del cav. Guccione era costretto a mutuare il grano «a ragione di tumolo uno a salma»,49 pari al 6,25%: una miseria, insomma, se si pensa ai guadagni dei tempi d'oro dei gabelloti. Ma Alia, non era la Sicilia. E il latifondo continuava ad imperversare.
Mussolini promise «l'assalto al latifondo»,50 ma riuscì a realizzare solo un po'di bonifiche e poche case coloniche. La tanto strombazzata «battaglia del grano» del 1925, oltre a far seminare il frumento in certe pietraie dove non cresceva nemmeno erba per le capre, servì solo a distribuire attestati di benemerenza al fior fiore dei gabelloti di Sicilia e a premiare il tema di uno studente del Regio Istituto Magistrale di Brescia, il cui attacco era un retorico omaggio ai successi del regime:
La commossa aspirazione virgiliana di un'Italia «magna parens frugum» è oggi consacrata: la celebrazione del pane — seguita alla battaglia del grano — adombra tutto un'ideale d'umanità e di civiltà, esalta la gloria dei campi, l'orgoglio del lavoro, la gioia del focolare domestico, auspica la ricchezza della patria, florida all'interno, e lanciata sulle vie millenarie percorse dalle legioni di Roma.51
Ma quel'erano, in Sicilia, queste «vie millenarie percorse dalle legioni di Roma»? Erano forse le polverose trazzere che dalle grotte abitate di Modica si snodavano fino ai latifondi della Sicilia interna? Se erano quelle, non vi transitavano le legioni di Roma, ma le misere carovane dei nomadi delle stoppie, il popolo degli spigolatori di Modica.52 «Una delle forme di guadagno – scriveva nel 1961 lo scrittore modicano Raffaele Poidomani –, la più triste ma risolutiva ed oggi sconosciuta in Italia è la spigolatura: bisogna rifarsi alla poesia di Mercantini per trovarne riscontro. Immane fatica alla quale si sobbarcano circa quattromila persone per oltre due mesi, compreso il viaggio di andata e ritorno, e che si conclude, quando tutto va bene, nell'avere assicurato il pane, nient'altro che il pane, sino alla nuova stagione […]. Io dedico queste pagine e quelle che seguiranno alla signora Puma, ch'io conobbi nel sole di fuoco all'ombra di un carro, ora scomparsa, alla famiglia che mi accolse nelle sue tende e a tutta la gente che nell'arsura di fuoco del feudo brucia le ossa guadagnandosi un pane che in tal modo può acquistarsi solo all'inferno».
Quell'esodo, che si concluse proprio agli inizi degli anni sessanta, non era cominciato all'epoca di Verre. È storicamente provato che il fenomeno si sviluppò, almeno in quelle forme, all'indomani della prima guerra mondiale. E forse non avrebbe mai raggiunto dimensioni bibliche, senza la retorica della «battaglia del grano», che portò le nuove leve dei mietitori iblei nei latifondi della Sicilia interna. «Tuttavia – prendiamo di nuovo in prestito le parole di Poidomani –, sola in Italia, Modica detiene questo primato, e c'è fra i cittadini chi sostiene che questa è la sua ricchezza. Io che ho fatto questa inchiesta, mi son sentito dire che proprio gli spigolatori sono l'espressione dell'abbondanza e della sicurezza del paese; perché portano roba a casa, perché si fa il calcolo delle salme, dei quintali di frumento che, a costo delle più amare traversie, essi vanno a raccogliere in luoghi insalubri, per radunarli poi nelle loro case che fanno parte della città di Modica».53
Case che erano spesso grotte o dammusi , abitazioni improprie. Ma ci vivevano per dieci mesi all'anno, assieme all'asino e alle galline, migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini che conoscevano come le loro tasche le più desolate contrade della Sicilia del grano. Anche questo racconta la terra di Cerere.
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Note
1 Cfr. A. Buttitta - A. Cusumano, Pane e festa, cit., p.16.
2 Cfr. A. Uccello, op. cit. , pp.15-16.
3 Cfr. G. Stazzone,' U Muzzuni, festa popolare di canti, Messina 1986.
4 Cfr. M. Zanzucchi Castelli, Pane – universo di simboli e riti, Modena 2000, p.153.
5 Cfr. M. I. Finley, op.cit., p.37.
6 Cfr. V. Ja. Propp, Edipo alla luce del folklore, Torino 1975, pp.64-65. In merito al pianto per il vuoto vegetale cfr. E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Torino 1975, pp.236-286.
7 Cfr. E. Costanzo – M. Liberto, I prodotti dell'Isola del Sole, viaggio tra mito, storia, tradizione, leggenda e realtà delle produzioni agroalimentari di Sicilia, Regione Siciliana, Palermo 2001, p. 37.
8 Cfr. M. Zanzucchi Castelli, Pane cit., p.149.
9 Cfr. J. W. Goethe, Viaggio in Italia, Milano 1991, p.288.
10 Cfr. H. E. Jacob, op. cit., p.326.
11 Cfr. A. Uccello, op. cit. , pp.18 e 129.
12 Cfr. J. Houl, Viaggio in Sicilia , Siracusa 1999, p.101.
13 Cfr. G. Nesti, I Fasci Siciliani , Messina 1994, pp. 8-9.
14 Cfr. O. Cancila, Il grano in Regione Siciliana, Catalogo agroalimentare , Palermo 1989, p.89.
15 Cfr. Ibidem .
16 Cfr. G. Cavallari, La campagna granaria in Sicilia nell'epoca romana , Palermo 1989, p.89.
17 Cfr. O. Cancila, op. cit. , p.90.
18 Cfr. Ibidem, p.93.
19 In proposito cfr. R. Moscati, Per una storia della Sicilia nell'età dei Martini, Messina 1953; V. Titone, La Sicilia spagnola Saggi storici , Mazara 1948.
20 Cfr. G. Oddo, Il blasone perduto Gloria e declino della città di Modica 1392-1970 , Palermo 1988, p.22; E. Sipione, I privilegi della contea di Modica e le allegazioni di G. L. Barberi in ASSO , LXII (1996).
21 Cfr. F. Brancato, Il commercio dei grani e una proposta di riforma dei caricatori in Nuovi Quaderni del Meridione , 1972, n.38, pp.129-152. Per l'andamento della tratta dal 1423 alla sua abolizione (1824) cfr. O. Cancila, I dazi d'esportazione dei cereali e il commercio dei grani nel regno di Sicilia in Nuovi Quaderni del meridione , 1969, pp. 402-443.
22 Cfr. O. Cancila, Baroni e popolo nella Sicilia moderna , Palermo 1983, passim.
23 Cfr. F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II , volume primo, trad. it., Torino 1992, p.152-153.
24 Cfr. D. Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna , trad. it., Bari 1970, p.225.
25 Cfr. G. A. Garufi, Patti agrari e comuni feudali di nuova fondazione in Sicilia in Archivio Storico Siciliano , S. III, vol. 2, I, Palermo 1946, pp.31-111, II, Palermo 1947, pp. 7-131. A. Pecora, Sicilia , Torino, 1974, pp. 132-138; M. Giuffrè (a cura di) Città nuove di Sicilia XV-XIX secolo, Palermo, 1978; V. Titone, La Sicilia dalla dominazione spagnola all'unità d'Italia, Bologna 1955.
26 Cfr. A. Siciliano, Sulla rivolta di Palermo del 1647 , Palermo 1990, p.18.
27 Cfr. D. Mack Smith, Storia della Sicilia cit., p.267.
28 Cfr. A. Siciliano, Sulla rivolta cit.; I. La Lumia, Giuseppe d'Alesi e la rivoluzione di Palermo del 1647, Palermo 1863.
29 Cfr. D. Mack Smith, Storia della Sicilia cit., p.268.
30 Cfr. A. Siciliano, Sulla rivolta cit., p.32.
31 Cfr. D. Mack Smith, Storia della Sicilia cit., p.372.
32 Cfr. Ibidem, p. 273.
33 Cfr. Ibidem, p. 278.
34 Cfr. G. Morana, «Estrazioni» di grano dal Caricatore di Pozzallo nel Seicento , Archivio di Stato Ragusa 1985, p.2.
35 Cfr. M. Petrocchi, La rivoluzione cittadina messinese del 1674 , Firenze 1954.
36 Cfr. N. Caeti, La Cacciata del viceré Fogliani in Archivio Storico Siciliano 1909-1910.
37 Cfr. D. Mack Smith, Storia della Sicilia cit., pp.403-404.
38 Cfr. Archivio di Stato Palermo, not. R. Scaccia, Note spese per alcuni commestibili ed altro provvisti dall'Ill. Don Diego Cammarata, procuratore del principe di Mirto , 30 ottobre e 30 dicembre 1773. Cfr. pure G. Oddo, Lo sviluppo incompiuto , cit., pp. 68-69.
39 Archivio di Stato Palermo, Deputazione del Regno, Riveli 1816, b. 55 A.
40 Cfr. O. Cancila (a cura di), Federico di Napoli Noi il Padrone, Palermo 1982, p.39.
41 Cfr. Ibidem, p.18, 19.
42 Cfr. Ibidem, p.203.
43 Cfr. E. Guccione, Storia di Alia 1615-1860, Caltanissetta-Roma 1991, pp. 338-345.
44 Cfr. Archivio di Stato di Palermo, Pref. Gab. B.35, cat.16, fasc.16 citato da F. Brancato Agricoltura e politica in Sicilia (dall'unità al fascismo) in Nuovi Quaderni del Meridione N.65-68, 1979, pp.70-71.
45 Cfr. G. Oddo, Lo sviluppo incompiuto , cit., p.282.
46 Cfr. A. Rossi, L'agitazione in Sicilia , Palermo 1988, p. 79-80.
47 Cfr. S. F. Romano, La Sicilia nell'ultimo ventennio del secolo XIX, Palermo 1958, pp. 274-275.
48 Cfr. A. Rossi, op. cit., p.80.
49 Cfr. Alia di Ciro Leone Cardinale. Monografia tratta dall'opera «Dizionario illustrato dei comuni siciliani» a cura di Francesco Nicotra., Palermo 1995, pp.48-49.
50 Cfr. T. Vittorio, Il lungo assalto al latifondo-Spiritara e contadini nelle campagne siciliane (1930-1950), Catania 1985.
51 Cfr. Opera italiana Pro Oriente, Il pane – temi premiati nel concorso nazionale per la celebrazione del pane 1928-VI , Milano 1929, p. 19.
52 Sull'argomento cfr. G. Oddo, Il blasone perduto cit., pp.11-13, 61-62, 209, 214; Id. Gli spigolatori di Modica e il movimento contadino in Centro Studi «Feliciano Rossitto», I cinquant'anni di agricoltura in Sicilia, Atti del Convegno Regionale Ragusa 26-27-28 marzo 1987, Ragusa 1989, pp.106-120; Id. I nomadi delle stoppie in Nuova Agricoltura , maggio 2000, pp.59-61; Fu merito delle spigolatrici il riscatto delle campagne in Giornale di Sicilia 27 marzo 1987, cronaca di Ragusa ; R. Poidomani, Gli spigolatori di Modica, in Il Mattino di Modica , 9 luglio 1961; Gli ultimi spigolatori in Uomini domani , anno I, n.5, Ragusa, 9 aprile 1963; R. Rochefort, Le travail en Sicile, Paris 1961; S. Nicosia, La coltivazione tradizionale del frumento nei latifondi del Vallone in AA.VV. La cultura materiale in Sicilia, Palermo 1980, p.251.
53 R. Poidomani, Gli spigolatori cit.
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