Il presepe realizzato quest’anno – 4 mq circa – nel salone di casa con l’aiuto dei miei figli, i pastori provengono in parte dal vecchio presepe di mio nonno realizzati in cartapesta, una parte da una collezione De Agostini, altri acquistati dal ceramista Perrone ed infine, sicuramente i più belli, sono stati realizzati dalla ceramista Titti Catalano, dietro mie specifiche direttive, la quale ringrazio ancora oggi per la pazienza prestatami. – Aprendo la pagina un pensiero di Don Liborio Palmeri sul presepe apparso su: www.resapubblica.it – e le foto del Presepe
È Natale e come ogni anno ecco il Presepe… visibile e invisibile – mercoledì 25 dicembre 2013 – 14:11 Pubblicato in Cultura, Il giallo, il rosso e il blu, Religioni presepe – di Don Liborio Palmeri
Resiste, a Natale, la costruzione del presepe. Magari piccolo, etnico, ecologico. Sotto l’albero, sulla consolle dell’ingresso di casa, o sotto la televisione. Lo stesso presepe, rimontato nella stessa casa, è come una piccola traccia, un filo rosso della storia di una famiglia. Un pastorello di terracotta si è spezzata una gamba sette anni fa, quelli di plastica invece resistono, ma ogni tanto se ne aggiunge uno, magari qualche animale sul piccolo prato o a sporgersi pericolosamente dal ponticello fatto con gli stuzzicadenti, una gallina, o – perché no? – uno struzzo, il presepe è bello per questo, perché ci puoi mettere quello che vuoi; e poi, vedi quel cagnolino del 2001, la venditrice di uova del 2008, e quest’anno? Niente! Perché c’è la crisi?! Al limite, se manca, ci mettiamo, “lo spaventato del presepio”.
Bello il presepe. Ma passato il Natale si ripone nel ripostiglio, con ordine, per ritrovarlo ancora l’anno seguente. Eppure, quest’anno, vorrei proporre un presepe da lasciare al suo posto per 365 giorni all’anno. E’ un presepe che non si vede. Una volta che lo hai costruito, non c’è più bisogno di smontarlo. E ti farà compagnia e ti darà quel calore che solo il presepe sa dare.
Al centro ecco Maria con la sua fede, la sua speranza, la sua carità. E’ bellissima. I pittori spesso le mettono un abito color porfido (l’umanità) avvolto da un manto celeste (la divinità) trapunto di stelle, come un cielo, perché lei è “più ampia dei cieli”, avendo accolto Colui che né i Cieli, né i Cieli dei Cieli possono contenere. Eccola Maria: il suo piccolo “sì” ha accolto, nella fede, la parola dell’Angelo; la sua speranza non ha avuto paura delle conseguenze; la sua carità l’ha portata subito a far visita alla cugina Elisabetta.
Se al centro mettiamo le virtù teologali di Maria, ora dobbiamo dare un posto anche a san Giuseppe. La tradizione lo colloca sempre defilato dalla scena della natività, a volte addirittura lontano, seduto, pensoso. Perché Giuseppe è il nostro legittimo dubbio. “Con il cuore in tumulto, tra pensieri contrari, il savio Giuseppe ondeggiava: sospetta segreti sponsali, o Illibata”; così canta l’inno Akathistos, caro alla tradizione bizantina e nato in Sicilia. Dinanzi alla fidanzata incinta, Giuseppe, da uomo concreto, non pensa certo che il bambino venga da Dio, egli usa la ragione, ma ragiona da uomo giusto e pacifico (e ancora innamorato), perciò rifiuta la sposa senza permettere che venga lapidata. Uomo della ragione, Giuseppe, tuttavia, sa ascoltare anche una voce più profonda, quella capace di far compiere gesti incomprensibili, che assumono la loro piena verità solo dopo molto tempo: un sogno misterioso lo convince a prendere come suo quel bambino che non lo è, ma che sente affidato alle sue cure come fosse figlio suo. E anche nella scena del parto, la tradizione (il vangelo apocrifo dello pseudo-Matteo) colloca Giuseppe lontano, a cercare una levatrice. Quando torna si chiede come possa essere accaduto che una Vergine abbia partorito e in quel momento il suo bastone secco fiorisce. Ecco, dunque, Giuseppe con un bastone fiorito, mettiamolo così, per ricordarci che ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio.
L’asino e il bue? Che presepe sarebbe senza di loro? L’asino rappresenta il nostro cammino verso la perfezione. L’antichità vede nell’asino il simbolo della trasformazione della parte animale dell’uomo verso un livello di consapevolezza più alta, come nell’asino d’oro di Apuleio. Il bue è invece la tenacia, la forza, simbolo positivo della capacità umana di trasformare la realtà che ci circonda: il bue tira dritto e traccia solchi sulla dura terra dove il seminatore getta i semi di nuova speranza, così com’è della Parola di Dio. Senza il bue e l’asino saremmo come Israele che rifiuta l’accoglienza della volontà di Dio e non vuole conoscerlo, come dice il profeta Isaia: «Il bue conosce il suo proprietario, e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende» (Is 1,3).
Dove mettere i nostri personaggi: davanti a una grotta, in mezzo alle rovine, sotto la tettoia di una casa? La tradizione ci consegna tutte e tre queste possibilità. Fate voi. La grotta è quella parte di noi, a cui non è mai arrivata la luce. A proposito della natività, infatti, lo stesso apocrifo parla di «una grotta sotterranea, in cui non c’era mai stata luce, ma sempre tenebre, perché non riceveva la luce del giorno» (vangelo dello Pseudo-Matteo 13, 2). Le rovine sono i nostri insuccessi, i nostri fallimenti a cui la venuta del Bambino può dare ogni giorno un nuovo senso. La casa è la Chiesa.
E ora i pastori. Sono gli ultimi, i poveri, i disoccupati, gli ammalati, i disabili, i carcerati, senza di loro il presepio non ha senso, perché l’annuncio passa attraverso loro, a loro per primi si rivolgono gli angeli, e sono loro a diffondere la buona notizia che Gloria a Dio nell’alto dei Cieli e finalmente pace sulla terra.
Ecco i magi, in cammino, ma distanti. Come loro dobbiamo ancora molto camminare per avvicinarci al Bambino e riconoscerlo dopo essere sfuggiti alle mire di potere dell’Erode di turno. Abbiamo bisogno di una stella che ci guida. Consegneremo l’oro, che si offre ai re, per accogliere la signorìa di Cristo nella nostra vita; la mirra, che si offre ai morti, per riconoscere in Gesù Bambino il Messia Servo sofferente, come le tre mirofore che andarono alla sua tomba; l’incenso, che si offre a Dio, per riconoscere il Figlio di Dio che ci salva.
La stella è lì, ormai posata sopra il nostro presepe invisibile, mettiamola con le sue otto punte. Perché l’otto parte da quel sei che è la creazione fatta da Dio in sei giorni, ma, per sottrazione, caduta nel cinque del demonio e del peccato, poi, per addizione, diventata sette con la venuta del Messia, vero sabato e riposo per l’umanità affaticata e stanca; ma la sua risurrezione ci ha fatto entrare nell’otto dell’eternità, secondo la profezia di Balaam, che vede spuntare una stella per Giacobbe, di cui la liturgia del Natale dice: «stella che sorge questa notte e all’alba non cade».
Ora basta. Manca il Bambino. Secondo tradizione va messo nella mangiatoia. Che strano significato in questa mangiatoia. Se andiamo a vedere i Vangeli, essi la chiamano “fatne”, il cui significato bisogna ritrovare a partire dal verbo greco “patèomai” che significa “mangiare”. La mangiatoia del Bambino, dunque, è la nostra fame. Il Bambino è venuto a sfamare questa fame: di giustizia, d’amore, di pace, d’eternità. “Beati gli affamati”, dirà da adulto. E quando starà per morire si darà come pane per saziare: “Prendete e mangiatene tutti…”, come gridava la Sapienza nelle sue profezie: “Venite, mangiate il mio pane…”. Questo Bambino è Pane, e Lui lo dirà chiaramente: “Io sono il Pane vivo disceso dal Cielo”; ecco perché è nato a Bethlemme, che significa: “Casa del Pane”. Come si può fare un presepe senza questa fame?…senza questo desiderio di eternità nascosto nel profondo del nostro cuore?
Ecco il Bambino, che, ogni domenica, sull’altare, nasce come Pane.
Ahimè, temo che a questo presepio non possa mancare il dormiglione. Lo mettiamo sulla scena, non perché gliene interessi qualcosa, per lui Natale è un giorno come gli altri, magari un’occasione per mangiare, bere e stare a poltrire sul divano… una parte di noi è così, preferisce dormire e non svegliarsi, mentre attorno magari accadono cose meravigliose. Ce lo mettiamo, a nostro rischio. Il suo sonno, quello della nostra anima, chiude gli occhi alla bellezza del presepe, e lui, poverino, aspetta il 25 dicembre del prossimo anno per far credere a tutti d’essere più buono.
* Don Liborio Palmeri – Vicario Generale della Diocesi di Trapani
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