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La lingua Siciliana ovverossia il Dialetto o Vernacolo – riflessioni di Vittorio Sartarelli

La lingua di un Popolo è anche la storia di quel Popolo. E la storia ricca e varia del popolo siciliano non poteva far altro che produrre un lessico altrettanto ricco e vario. La base lessicale del Siciliano è, molto probabilmente, derivata dal Latino; però, in effetti, nel lessico della lingua siciliana è possibile trovare grecismi, arabismi, normannismi, catalanismi, francesismi, spagnolismi, eccetera. Essi rappresentano le impronte della Storia dell’Isola, fatta di invasioni e di innumerevoli contatti con le genti del Mediterraneo e d’Europa.
 

Il dialetto o vernacolo, è l’idioma particolare di una regione contrapposto alla lingua comune ufficiale e letteraria. Mentre una lingua ufficiale può articolarsi in letteraria, tecnica, usuale ed espressiva, il dialetto rimane connotato per lo più a un livello espressivo. I rapporti di convivenza tra lingua e dialetto hanno determinato influssi reciproci che si risolvono in un avvicinamento del dialetto alla lingua o in una penetrazione di elementi dialettali nella lingua stessa. E il Siciliano è anche lingua che ha apportato( e continua a fario) del lessico ad altri idiomi principalmente all’Italiano.
La Lingua Siciliana viene considerata una lingua romanza al pari dell’Italiano, del Francese, dello Spagnolo, del Portoghese, del Rumeno del Catalano e di tutti quei dialetti o lingue che sono derivate dal passaggio progressivo dal Latino a una lingua “volgare”, completato si nelle linee più importanti intorno al periodo medievale. Una stessa lingua può presentare vari aspetti in relazione ai diversi bisogni espressivi che si vogliono soddisfare: si realizza così una lingua usuale di cui ci si serve per la quotidiana comunicazione con la gente media della propria collettività, una lingua espressiva solitamente riservata alla più ristretta cerchia dell’ ambiente familiare e delle amicizie, una lingua letteraria per comunicare con ambienti sociali più elevati culturalmente.
Parlando, infine, della capacità espressiva di un idioma e ancora meglio di un vernacolo, cose c’è di migliore come espressione letteraria nella lirica siciliana, del suo dialetto, creando un linguaggio originale e verace che trova riscontro nell’uso quotidiano e popolare della comunicazione più diretta e verista e quindi più comprensibile e penetrante verso un ventaglio più ampio di strati sociali, ma essenzialmente rivolto al popolo.
La lingua madre per i siculi è il Siciliano e l’Italiano è come se fosse la seconda lingua, il nostro idioma per noi è una grande ricchezza che ci rende diversi anche se uguali. Con le nostre specificità linguistiche e culturali legate al territorio, alla Storia, alle tradizioni a connotazioni uniche che ci permettono di esprimere quella sicilianità che ci contraddistingue e ci onora. E, a proposito di quello che significa per un popolo la sua identità linguistica, c’è una poesia di Ignazio Buttitta, il poeta dialettale siciliano forse più importante e rappresentativo del XX secolo, che evidenzia in modo quasi scultoreo il disagio morale e psicologico che provoca la perdita di questa identità.
 

Ignazio Buttitta
 
Un populu
mittitilu a catina,
spughiatilu,
attuppatici a vucca:
è ancora libiru.
 
Livatici u travagghiu,
u passaportu,
a tavula unnu mancia,
u lettu unnu dormi,
è ancora riccu.
 
Un populu
diventa poviru e servu
quannu ci arrobbanu a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri.
 
Diventa poviru e servu
quannu i paroli non figghianu paroli
e si mancianu tra d’iddi.
Mi nn’addugnu ora,
mentri accordu la chitarra du dialettu
ca perdi na corda lu jornu.
 
Mentre arripezzu
a tila camuluta
ca tissiru i nostri avi
cu lana di pecuri siciliani.
 
E sugnu poviru:
haiu i dinari
e non li pozzu spènniri;
i giuelli
e non li pozzu rigalari;
u cantu
nta gaggia
cu l’ali tagghiati.
 
Un poviru
c’addatta nte minni strippi
da matri putativa,
chi u chiama figghiu
pi nciuria.
 
Nuàtri l’avevamu a matri,
nni l’arrubbaru;
aveva i minni a funtana di latti
e ci vìppiru tutti,
ora ci sputanu.
 
Nni ristò a vuci d’idda,
a cadenza,
a nota vascia
du sonu e du lamentu:
chissi non nni ponnu rubari.
 
Non nni ponnu rubari,
ma ristamu poviri
e orfani u stissu.

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