Giuseppe Marco Calvino


opere teatrali


novelle in versi


testi inediti


la copertina del libro Il secolo illuminatissimo

la copertina


Salvatore Mugno - scrittore

Salvatore Mugno
scrittore



Ringraziamenti:
Renato Alongi
Renato Lo Schiavo
Renzo Porcelli
Sergio Marchingiglio

Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

Giuseppe Marco Calvino - Il secolo illuminatissimo
a cura di Salvatore Mugno

Busto di Giuseppe Marco Calvino presso la Cattedrale di Trapani
Busto di Giuseppe Marco Calvino presso la Cattedrale di Trapani

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III. CALVINO INEDITO

2. TESTI TEATRALI IN VERSI
L’ospite ericino


Questa poderosa novella in due canti (193 ottave di endecasillabi, in tutto) è una spassosa e proteiforme invettiva contro l’ingordigia, il fariseismo e, perfino, certa empietà preteschi, avverso l’ignoranza, la superstizione, il municipalismo bieco e birbone dell’”ericino”, assunto a emblema dell’umanità genericamente trapanese e sicula.
Lungo il filo di un “pretesto” - l’attrazione e la conseguente rincorsa di Apollonia da parte di tre giovani in trasferta sulla Vetta in occasione di un baccanale strapaesano -, Calvino stilizza la narrazione addensando idee ed elaborazioni culturali; innestando, nelle innumerevoli avversità di percorso in direzione della “rapace preda”, i rilievi in finissima ceramica di uomini, costumi e ambienti siciliani...
Programmatico e aforistico lo sventolante vessillo dell’ouverture: «Il mondo invecchia, e seco invecchia il vizio,/ ed intristendo e peggiorando va./ Un uom, che arrischia a fare un benefizio,/ non ottiene alla fin che un ben gli sta./ Laude solo oggi vien dal malefizio:/ a tale è giunta la perversità;/ e lo vedrete, se l’istoria mia/ udrete con l’usata cortesia» (canto I, I ottava).
Il cosiddetto incivilimento degli esseri umani, dunque, sovente non sarebbe che il dispiegarsi della loro marcescenza, della loro depravazione “evolutiva”.
È da notare anche l’ironica blandizie con cui spesso l’autore si rivolge ai lettori, consapevole dell’ambiguo gioco delle parti.
Come già ravvisato nelle Manicone, Calvino non cela la sua simpatia per le primitive - e in fondo vereconde - naiveté del tramontato paganesimo, a fronte delle ipocrite castigatezze dei sedicenti culti cristiani. Soltanto in apparenza, infatti, sono scacciati gli antichi “mostri” dinnanzi ai quali gli antenati si prostravano. Alle bagasce e alle orge delle celebri cerimonie d’un tempo (anagogie e catagogie), ne sono succedute altre, non meno triviali e ignobili.
“Sarò breve”, celia lo scrittore, accingendosi, tutt’all’opposto, a una dettagliata e mirabolante rappresentazione del festino in cui snoda il divertente racconto.
Tra strepiti di trombette e tamburi (pendant dei crepitii dei culi montanari) e levate di “razzi” nella mischia di «carne e carne», l’autore ci consegna il lasciapassare per «il nostro secolo cattolico»: in forza della nuova religio gli sciagurati “fedeli” credono di poter finalmente dominare Satana. Gli Ericini, inoltre, si vantano della prossimità alle “alte sfere”, deridendo «que’ di sotto», «Trapanesi i bell’imbusti», e si gloriano delle proprie, “incielate” corna.1
Gli indigeni, personaggi della processione en travesti, non si credono da meno delle divinità. Per via della accidentale residenza in altura, pretendono di possedere ingegno “elevato”, fino a credersi dei novelli Argonauti 2 a bordo del carro trionfale che li conduce per le vie del paese. Si trattava, in realtà, come precisa lo sbeffeggiante Calvino, di una piccola imbarcazione usata per il trasporto del sale sottratta «alla marina trapanese» e trascinata chissà come in vetta (ma certamente con minore dispendio di genio ed energia di quanto non ne abbia approntati Werner Herzog in Fitzcarraldo).
Dietro la sottile maschera di un fittizio campanilismo - Calvino non si gloriava granché dei suoi concittadini! -, di un risibile antagonismo, di una contesa piuttosto esteriore ma quanto mai risentita e ottusa tra le due popolazioni confinanti, l’autore denuncia la villania, la primitività e l’avarizia dei popolani intenti a dare sfoggio di “spettacoloni” squallidi e miserandi, dopo essersene stati rintanati come ghiri per un intero anno.
Ma, prima di aprire le porte di casa, non dimenticano di adottare ogni precauzione a salvaguardia delle donne, ché non sono rari i casi in cui si installi il Diavolo in corpo a qualche sprovveduta figliola. E per le ragazze “ribelli” il solo toccasana è il predicozzo del sacerdote, l’unico, così, a poter «penetrare in quel sacrario», col suo «dritto».
Inaugura, in tal modo, lo scrittore trapanese, la nuova sfilza di affondi e di sfregi sulla tumefatta figura del prete, via via presente nei panni dell’invertito, dell’ingordo, del fornicatore, del bestemmiatore, dell’avaro, dello sfaticato, del blasfemo, del superstizioso, dell’ignorante credulone, del profittatore...
Conclusa questa sorta di raffinato e prelibato preambolo, Calvino passa a presentare i personaggi della storiella amena e da quel momento - pur nella complessità dell’intreccio - li guida con mano salda e decisa, tanto da trarne quadri, dinamismo e contrappassi degni di un canovaccio per il cinema.
Preliminare osservazione, quanto alla “poetica” calviniana, potrebbe qui essere la ribaltata raffigurazione del calco femminile rispetto alle opere per il teatro.
Come già nelle Manicone - con Antonietta e Paoletta -, anche ne L’ospite ericino le signore e le signorine - Apollonia, sua madre, l’amica Bertuccia - offrono l’altra (qualcuno potrebbe dire la vera) faccia della medaglia, il vèrso (o rècto) speculare e rovesciato delle buone donne già incontrate, come se all’autore riuscisse più conveniente sostenere talune “verità” attraverso la giocosità poetica, piuttosto che tramite la seriosità ufficiale e potenzialmente “pubblicistica” degli scritti per le scene.
Tre ragazzi trapanesi - un botteghino, un cancelliere e un notaio - raggiungono Erice per prendere parte ai festeggiamenti religiosi con lo scoperto intento di guadagnare l’intimità di qualche sottana.
Il “fantasma” della libidine si materializza ben presto nella giovane Apollonietta, figlia del notaro Titta, nei quali il terzetto si imbatte appena giunto ad Erice.
Il padre e la sua rampolla vengono subito spennellati dall’autore come figure al di là del bene e del male, fuori dalla grazia di Dio e dalla comune morale, avvoltolati in una ambigua complicità: la loro casa assomiglia a un postribolo.
Con la easy girl – che, peraltro, manifesta un debole per i forestieri -, si vola in alto, insomma, puntualizza Calvino, schizzandone un gustoso ovale: «Un taglio delicato, un po’ bassotto,/ un color quasi quasi sul brunetto;/ un occhio languidetto, furbacchiotto,/ un labbro porporino tumidetto;/ un nasin pari a becco d’aquilotto,/ natiche tonde, tondo e liscio petto,/ tonda, liscia, pulita la coscetta;/ questo è il ritratto d’Apollonietta» (canto I, XXI ottava).
Gustosa anche l’illustrazione dell’incedere della fanciulla, una sorta di ribaltamento di alcuni celebri versi danteschi della Vita Nuova: «Tanto gentile e tanto onesta pare/ la donna mia quand’ella altrui saluta...».
I due corposi canti, fitti di accadimenti e coup de théatre, muovono come guidati e attratti dal “faro” di questa capricciosa pulzella, nel cui letto (un po’ alla volta e, al clou della narrazione, perfino in un’involontaria ammucchiata) finiscono quasi tutti i personaggi maschili...
L’autore si profonde, con grande abilità, in minuziosi medaglioni psico-somatici e caratteriali (la «figurina gracile» di Titta ad esempio) e colloca anche, con puntiglio storico, nel 1826 la memorabile solennità religiosa, a cui si erano uniti perfino pellegrini provenienti da Catania!
I tre giovani trapanesi, invitati caldamente da patron Titta a stabilirsi nella sua residenza, piuttosto che rischiare d’emblée il “conflitto d’interessi” e la bagarre, furbescamente rifiutano, per poi poter meglio, isolatamente, dare l’assalto al “fortino”.
Si ritroveranno, perciò, per alcuni giorni in balia di molteplici disavventure, ciascuno sulla propria cattiva strada. Apollonia, fiamma vivente, presto con fuoco, dovrà attendere! Inizialmente, il trio trova ricovero (né accogliente né benevolo) presso un convento.
Il frate portiere di notte, un po’ checca, cede soltanto per il desiderio di fare una ravvicinata conoscenza coi bellocci.
Vengono relegati in uno stazzo fetido, a nutrirsi di putredine e dell’avarizia dei frati, che tengono ben nascosta e sorvegliata la ricchissima dispensa colma di delizie. Il giovane notaro, che intuisce la sede della preziosa cambusa (la «cittadella»), finge di essersi saziato coi cibi avariati e di addormentarsi, per potere poi agire indisturbato nottetempo. Frate Bernardino, il frocio, tra tutti presceglie il botteghino e, con blandizie, lo conduce nel suo giaciglio per possederlo come «a marito», secondo la formula calviniana.
Nell’oscurità si succedono loschi affaire: il notaio, che vorrebbe prender parte al convegno erotico - attivamente o, quanto meno, voyeuristicamente - si smarrisce finendo nell’obitorio in cui attendono le esequie alcuni cadaveri; il cancelliere tonfa nel sonno e nell’incubo di Apollonia, dalla quale già sogna di venire tradito...
È un parapiglia di grida, di risvegli, di rincorse notturne, di equivoci.
Sopraggiunge Padre Formica, che sermoneggia per scacciare gli spiriti maligni... Ma trasecola allarmato all’udire il nome di Apollonia: più che esorcizzare, occorreva, dunque, bastonare i giovinastri, ché la giovane era (pure) la ganza del Superiore... Botte da orbi, dunque, e poi la quiete, il chiarimento...
Ottimo l’”arrivo dei nostri” (cuciniere, sagrestano, un chierico, un frate anziano...) in soccorso di “Sua Paternità”.
Calvino coglie l’attimo anche per un’altra critica ai costumi del tempo: la dabbenaggine di considerare morto chi fosse appena svenuto e sbiancato.
Nella mischia uno dei religiosi aveva creduto che le due salme fossero resuscitate: «Se alcun pel solo aspetto cadaverico/ fu sepolto talor - l’uso barbarico -,/ se quando dal mortal sopor si desta,/ vuole che gli si dia la croce in testa (...)» (canto I, LXI ottava).
Ai tre giovani non resta che fuggire dal convento, ma il notaio non vuole rinunciare ad una esplorazione in cucina tra le provviste. Si nasconde, perciò, in attesa di potere sferrare il colpaccio. Il botteghino e il cancelliere sono costretti, separatamente, al vagabondaggio e all’accattonaggio...
Con eccellente regia, lo scrittore, a questo punto della narrazione, inanella, in sequenza, quattro esilaranti episodi, passando da una scena all’altra con modalità “frammentistiche” e ad incastro a cui hanno fatto ampio ricorso anche gli “sperimentatori” del Novecento.
Dalla LXVI alla LXXVII ottava assistiamo alla “reprimenda” a cui viene sottoposto il frate portinaio (sulla cui tonaca sono state rinvenute macchie di sperma), convocato d’urgenza dal Superiore... Ancora mezzo nudo e con indosso indumenti del botteghino (evenienza ricorrente, “classica” si direbbe, quella dello scambio o del ritrovamento inavvertito e “indiziario” di vestimenti ecclesiastici o civili, come apprendiamo anche da Masuccio Salernitano),3 proverà a giustificare il “gran caso”. La spunterà mettendo la pulce nell’orecchio del fustigatore: le mire dei tre ragazzi su Apollonia, la pupilla del Guardiano. Questi, subito attanagliato da propositi bellicosi e vendicativi, storna altrove i suoi rosari! E Bernardino è salvo!
Le ottave LXXIX - LXXXVI puntano i riflettori sul cancelliere.
L’operatore giudiziario si imbatte in un suo, furbastro, ex servitore, che si accompagna al nuovo padrone, un vecchio Conte «antiquario, solenne e gran filologo».
Gli presenta il giovane, spacciandolo per «grande astrologo», appena derubato dei suoi beni «al passo della Grotta di Martogna».
Qui si intrecciano le panzane del servitore ai danni dell’aristocratico con le fregnacce del Conte che, guidando il cancelliere nelle stanze del suo «picciolo museo», gli mostra «(...) i cesti d’Erice e d’Anteo:/ ecco, veda, Signor, la pietra pregna./ Qua, un autografo di Giuseppe Ebreo.../ E quel buffon: di Venere Ericinga/ ecco il bidè, Signor, con la siringa» (canto I, LXXXI ottava).
Il servo sollecita il suo padrone a offrire ostello al cancelliere e ad imprestargli degli abiti acconci.
Il giovane viene spinto ad accettare un capo di vestiario antiquato e ridicolo. E lo scrittore non si esime dal sottoporre alla berlina gli usi e i gusti degli Ericini in fatto di abbigliamento.
L’imbarazzato cancelliere «(...) si consolò, ché su quel monte/ ben anco i più galanti damerini,/ a serbar di due secoli le impronte,/ indossavano ancor que’ vestitini./ Così non scomparendo a quelli a fronte,/ contini, baroncelli, marchesini,/ ben si crede di far la sua figura,/ imitandone i modi e l’andatura» (canto I, LXXXIV ottava).
Divertente e sarcastica la descrizione delle maniere e delle mise demodé della nobiltà ericina, irrigidita come figurine arcaiche o graffiti preistorici: «E poiché sempre fra le nubi estatiche/ stan quelle genti di menti falotiche,/ han certe lor particolari pratiche/ a tutti quelli di Sicilia esotiche:/ portan la testa in alto, in fuori le natiche,/ il petto avanti; e quali nelle gotiche/ pitture noi veggiam que’ scarabocchi,/ curvi al gran saliscendi hanno i ginocchi» (canto I, LXXXV ottava).
Adusi alle piaggerie, all’ossequiosità, deambulano con la destrezza e la baldanza degli equini addestrati all’eleganza e con affettazione superiore a quella dei Parigini!
Il cancelliere comprende come occorre camuffarsi, atteggiandosi a gran dignitario anche lui.
Più fortunato il botteghino che - con addosso la tunica del pio Bernardino - escogita di fingersi mago e matematico («in lingua latina maccheronica») e accalappia un fratastro dedito più alla cabala e agli artifizi umani che non alla luce della fede cristiana...
Il prete, non soltanto lo adula come fosse un nuovo messia, ma lo introduce ed ospita nella sua casa, sicuro di poter godere dei suoi prodigi.
Col religioso vive Bertuzza - una sua figlia nata da un vecchio amore - di cui il botteghino assapora presto le qualità, piegando il genitore della ragazza alle più meschine bassezze.
Mentre il giovane se la spassa con la fanciulla, il vecchio prelato «sognava un terno al lotto» (quando si dice il progresso!), ma anche di trasformarsi in una mistica bestia cornuta!
Sospesa quella vicenda, Calvino conclude il primo canto riportandoci sui pericolosi passi del giovane notaio e celebrando ancora l’avidità e la cupidigia dei conventuali. Intenti ai preliminari dei funerali, i monaci preparavano per sé il sacrificio di una «doppia pietanza» (da cui il celebre «mors tua vita mea» ironizza l’autore), prendendo ogni precauzione per tener lontani dalle pentole cani e gatti.
Quando il cuciniere si allontana dai fornelli per recarsi alla messa funebre, il notaio si dà ai bagordi, ingozzandosi a tal punto di prelibatezze da non riuscire a dileguarsi da una finestrella. Si trastulla, perciò, defecando e lasciando ciondolare gli attributi dalla inservibile via di fuga.
Ma nel dare requie al “podice” infiammato, rovescia un pentolone. Non può, quindi, che rintanarsi, mentre sopraggiunge la ciurma affamata, in attesa delle prossime intemperie.
Con un distico ammiccante, Calvino cala il sipario sul primo atto: «(...) e taccio anch’io per ora, e prendo fiato:/ punto, e da capo, se non v’ha nojato», simpaticamente strizzando l’occhio al lettore, al quale chiede una sorta di complicità in cambio di una rarissima (oggi più di ieri) apertura di fiducia e di onestà, come emerge dagli spiazzanti versi dell’inizio del secondo canto, riluttanti agli infingimenti e alle pruderie ipocrite: «Ogni fatica merita il suo premio:/ così si legge nel Deuteronomio;/ io stesso, mentre scrivo un tal proemio,/ scrivo alla fin per ottenerne encomio./ Zappa e suda il villan, ma quinci in premio/ della moglie battuta il sazia Bromio;/ rischia, il nocchier, po’ lieto a casa sverna;/ l’artigian suda un dì, dopo in taverna» (canto II, I ottava).
In una prima tranche di ottave (II-XIII), l’autore fa risuonare lo scudiscio sul dorso dell’accolita fratesca, elogiando le loro quotidiane fatiche canore, mentre le “malelingue” insinuerebbero che i monaci si strafoghino a sbafo: «Eh via, sono fatiche maledette,/ dai belli spirti sol non sono accette.// Ma vi ha chi le conosce, e le compensa./ Né mai frate Cercante giunse a sera,/ che sulle curve spalle alla dispensa/ non vi recò la sacca colma intera./ All’ora in punto la fratesca mensa/ sarà sempre imbandita, e il mondo pera./ Vedrai l’agricoltor morir digiuno,/ frate però non se n’è visto alcuno» (canto II; III e IV ottave).
Non si può non riconoscere al Calvino - malgrado i testi qui raccolti siano quasi sempre di prima stesura e, dunque, privi di qualsivoglia riscrittura e, perfino, di semplice messa a punto - una straordinaria indole musicale, una prontezza di versificazione che può addirittura irritare e suscitare il sospetto di un eccesso di “mestiere” o, all’opposto, di innata, indomabile, estemporanea genialità e versatilità. Ma di fronte all’inappuntabile perizia tecnica, alla plasticità della resa tematica, alla padronanza lessicale e strutturale, alla forza tout court del dettato poetico e narrativo di gran parte delle strofe di queste novelle in versi, il suo magistero ci sembra innegabile.
Piccole imperfezioni terminologiche, talune ripetizioni di vocaboli, l’interpunzione necessariamente affrettata (e talora da noi ripristinata), qualche costruzione ardita o spiccia, sparuti endecasillabi sforzati o precipitosi, non fanno velo, a nostro avviso, al complessivo impianto di queste opere calviniane.
Si osservi, ad esempio, la nettezza della V ottava: «Oh come i nostri monacelli stanchi,/ come corrono al suono del battaglio/ a ristorar gli affaticati fianchi/ trafelati per tanto aspro travaglio./ Soave odor già par che li rinfranchi,/ soave odor di biscottata e d’aglio;/ e sebben d’abortir non c’è pericolo/ un certo non so che prova il ventricolo».
Un pasto ottimo, quello servito dal nostro autore, all’altezza della mensa che i religiosi si apprestavano a celebrare, dopo essersi sgolati in funebri litanie.
All’amarissima scoperta, i prelati si lanciano in accuse a Belzebù, scatenandosi in imprecazioni, perfino brontolando bestemmie, inveendo contro il «mondo infame!».
Impartendo anatemi in danno dei poveri gatti, decidono di accendere la caldaia, stanando così il notaio terrorizzato, che le busca di santa ragione.
Da un vizio all’altro della schiatta clericale, Calvino riprende il set del botteghino (sedicente cabalista) e dello stòlido sacerdote che lo ha accolto in casa (e, nottetempo, nel letto della figlia).
Il giovane sorpreso a copulare con la ragazza, asseconda l’invasamento del vecchio che lo crede un nume, uno spirito benigno, un angelo del paradiso, tanto da benedire quell’accoppiamento: con occhi estatici - finché il botteghino non lo scaccia, addirittura, in malo modo - assiste al mistico sacrificio della figlia, nell’auspicio di una generazione di eroi, di divinità...
In preda all’euforia, l’ometto esce di casa per spifferare al mondo il prodigio occorsogli!
A questo punto, la narrazione calviniana procede nella via della concatenazione di tutti i personaggi verso un unico sito, la stanzetta di Apollonia, in un precipitarsi di eventi e di ingarbugliamenti in cui si fa fatica a credere, come riconoscerà lo stesso autore: «Ideate ora voi quale inviluppo.../ Ma qui, sento sgridarmi, è troppo, è troppo,/ è tutta invenzion questo sviluppo.../ Convengo anch’io che il fatto è inverisimile:/ non può inventarsi una faccenda simile!» (canto II, LXXV ottava).
È sempre eccessiva e incredibile la verità, denuncia, dunque, l’autore.
Durante la confluenza di protagonisti e comparse nel luogo deputato al caos delle umane tresche, il Calvino introduce talune sapienti notazioni di morale e di costume - schegge del suo pensiero, in altri termini – che è utile riportare.
Tampinando il cancelliere per le viuzze ericine - agghindato da cavaliere, da gran possidente e ossequiato da nobili e popolani - ci informa del suo difetto di diottrie (ricercava Apollonietta, è ovvio!) per ricavarne riflessioni d’alta filosofia dell’esistenza o, se si preferisce, di sociologia della conoscenza.
Se un tempo cieco era Cupido, orbo adesso è il genere umano (annebbiato dall’ignoranza, dalla selvatichezza, dalle psicologie retrive...) e i dardi degli sguardi fanno cilecca, tanto che il puttino dell’Amore farebbe meglio a riconvertirsi in ottico o in oculista: «Ohi ohi be’ tempi: nell’età dell’oro/ furon l’armi di Amor le frecce e i dardi,/ sol con questi agli amanti era martoro,/ col ferir, coll’accendere gli sguardi./ Sol ei fu cieco, or sono ciechi coloro;/ ché bisogno han di un vetro i raggi tardi,/ e ancor, vedete a che mai giunto è il guajo:/ amore uop’è che faccia l’occhialajo» (canto II, XXVIII ottava).
In un’epoca in cui non v’è signorino che non si pavoneggi della sua catenina con le lenti sul panciotto, si domanda l’autore se possa ritenersi progresso quell’ostentata cecità.
Incontrato Don Titta, stavolta il giovane ne accoglie ben volentieri l’invito. Il vecchio ruffiano prova a cuocerselo con l’astuzia, laudando le qualità e la verecondia della figliola e della moglie.
Il cancelliere, dopo tante balle, capisce l’antifona e medita di stare allo sporco gioco, a cui si aggiunge la timida e ritrosa Apollonia che, sollecitata dal padre, al “chitarrino” intona «l’arietta: Pascolava un pecorello» (preludio al concertato tentativo di incastrare il giovanotto!).
La ragazza, frattanto, gli allunga un biglietto di invito a un convegno notturno nel suo letto. Lì, dopo di lui, per una serie di equivoci, coincidenze e rivendicazioni, sopraggiungeranno, in successione, il notaio trapanese, padre Formica, Don Titta, il botteghino, Bertuccia, suo padre, la madre di Apollonia (esperta nell’arte di petare),4 in un tripudio di botte, di grida, di altarini scoperti, tentate evirazioni... Da non potersi credere, appunto, tanto che l’autore è costretto a citare un testimone oculare, lì accorso per lo strepito, insieme al vicinato e a «un bravo magistrato» che «all’istante serrar fece le porte,/ ed in confuso udì ciò ch’era stato./ Quindi emise sagissima sentenza:/ ciascuno ebbe le sue? Dunque prudenza» (canto II, LXXXII ottava).
I miti consigli dell’uomo di legge - preoccupato di salvare l’onore della Sicilia, della Religione e dell’Aristocrazia - mettono tutti a tacere, «zitto: come qui mai stati non fossimo,/ signori miei... la carità del prossimo!» (canto II, LXXXVII ottava).
Come nel finale delle Manicone, dunque, alla pubblica contesa e allo scandalo conclamato si preferisce la composizione “amichevole” e “segreta” degli intrighi e delle, per così dire, sozzerie private.

NOTE

1 Famigerate sono le annose e stucchevoli controversie storico-teologiche fra gli Ericini e i Trapanesi intorno al sito che diede i natali a Sant’Alberto, patrono del capoluogo, e rivendicato come proprio concittadino da entrambe le parti. Su questo terreno si diedero battaglia anche Nicolò Burgio e Tommaso Guarrasi. Sulla letteratura in materia, si veda, ad esempio, F. MONDELLO, Bibliografia trapanese, Palermo, Tipografia del Giornale di Sicilia, 1876, pp. 15 e ss..
2 Apollonio Rodio fece, in effetti, sostare anche a Drepane (odierna Trapani) i suoi antieroi: Cfr. APOLLONIO RODIO, Le Argonautiche, introduzione e commento di G. Paduano e M. Fusillo, traduzione di G. Paduano, Milano, Rizzoli, 1986, canto IV.
3 Cfr. la terza novella in MASUCCIO SALERNITANO, Il Novellino, con appendice di prosatori napoletani del ‘400, a cura di G. Petrocchi, Sansoni, Firenze, 1957 e S.S. NIGRO, Le brache di San Griffone. Novellistica e predicazione tra ‘400 e ‘500, prefazione di E. Sanguineti, Bari, Laterza, 1989, 2a ed., alle pp. 123 e ss..
Non è un caso, forse, che il frate calviniano si chiami Bernardino e che il personaggio del Masuccio Salernitano sia un predicatore bernardiniano (le sue brache, dimenticate nell’alcova, saranno elevate a reliquia di san Griffone!).
4 Sull’argomento si rimanda a un classico moderno: L’arte di petare, ovvero Il manuale del subdolo artigliere, a cura del Conte de La Trompette, traduzione di C. Portico, Milano, ES, 1998.

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