Giuseppe Marco Calvino
opere teatrali
novelle in versi
testi inediti
la copertina
Salvatore Mugno scrittore
Ringraziamenti:
Renato Alongi
Renato Lo Schiavo
Renzo Porcelli
Sergio Marchingiglio
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Archivio culturale di Trapani e della sua provincia
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Giuseppe Marco Calvino - Il secolo illuminatissimo a cura di Salvatore Mugno
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Busto di Giuseppe Marco Calvino presso la Cattedrale di Trapani
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Presentazione di Antonio Di Grado
Per arricchire di nuove scoperte l’archivio della storiografia letteraria occorre non solo pazienza – e cioè la cocciuta acribia dell’erudito – ma pure coraggio, cioè idee e voglie accese, forti temperature esistenziali. Se no, si fa polverosa, ancorché meri-toria, cultura da campanile: meritoria, appunto, ché è in essa che inevitabilmente frughiamo per le nostre ricerche, uscendo-ne arricchiti di qualche dato prezioso, ma con i polmoni intasati da quell’onesta polvere.
Per sua e nostra fortuna, Salvatore Mugno non è un presbite e stitico erudito: è scrittore, e per di più di quelli (pochi, in verità) che osano, che fanno irrompere nel salotto buono della letteratura cattivi sentimenti e cattive abitudini, che di quel salotto lordano provvidenzialmente i tappeti con azzardi concettuali ed eccessi espressivi. Quando il suo lutulento romanzo-diario, di cui va pubblicando isolati lacerti ed altri ne riserva a clandestini circuiti amicali, vedrà finalmente e integralmente la luce, solo allora si potrà verificare queste mie illazioni e intendere lo spessore di quel voyage au bout de la nuit.
Ma torniamo a Mugno ricercatore e critico, le cui inclinazioni (e frequentazioni) maudites ho messo in campo per dire, appunto, che non si fa ricerca né critica senza osare, senza esporsi, senza travasare (usando, intendiamoci, energici filtri) i detriti del vissuto nel troppo limpido alveo della scrittura. E senza cercare, fatalmente, tra gli autori su cui indagare, affinità elettive e complicità di semblables e frères d’azzardi e malcreanze.
Inevitabile, perciò, l’incontro con Giuseppe Marco Calvino, poeta libertino, colpevolmente ignorato dai beneducati annalisti delle patrie lettere. Indifferibile perché, come nel caso del catanese Tempio, la licenza e la beffa d’autore, la critica irridente e irriverente, vengono rimosse o relegandole nelle sfere basse, perciò trascurabili, della produzione letteraria o concedendole in pasto alle plebi perché le riducano al lazzo scurrile e alla barzelletta greve: e dunque, come nel caso di Tempio, dal corpus poetico vanno scrostate le stratificazioni del luogo comune e della mitografia popolare, delle banalizzazioni e perfino degli apocrifi.
Calvino pare a Mugno – forse a ragione – più empio e più outré del pur truculento e iperbolico Tempio; ma tra i due stanno in mezzo ben sette lustri: e non è un caso che la produzione del trapanese si collochi tutta nel pieno del secolo successivo, dell’Ottocento borghese. Calvino, dunque, epigono? Voglio dire piuttosto che l’ardimentosa imagerie e la raffinata erotologia d’uno Choderlos de Laclos o d’un Crébillon fils – esplicitamente citato, quest’ultimo, dal Nostro –, se traslocate di forza nell’Europa della Restaurazione acquistano il sapore d’una sfida disperata o d’una posa pateticamente impettita. E comunque, anche nella migliore (cioè nella prima) di queste ipotesi, si iscrivono piuttosto nell’età e nello spirito d’un Belli e d’un Leopardi (giusto per citarne i vertici).
Paragoni non spropositati, comunque: imposti, anzi, dal sarcasmo anticlericale di Calvino, dalla sua irriducibilità alle “magnifiche sorti e progressive” e più da certe straordinarie conso-nanze fra questo Calvino in lingua, proposto da Mugno a specchio del più noto e più facile poeta in dialetto, e – si parva licet componere magnis - il Leopardi delle Operette (i due moriranno, del resto, nello stesso volger d’anni), qui prepotentemente richiamato dal sapido dialoghetto calviniano fra il topo e il ragno in biblioteca.
Leopardi avrebbe potuto venire in Sicilia, se avesse accolto l’invito dell’amico Gargallo: e su questo viaggio mancato si potrebbe almanaccare almeno quanto ha fatto Sciascia a proposito dell’analoga trasferta disertata da Stendhal. Tanto più che in Sicilia il leopardismo vanta un doppio, altrettanto scettico in tema di progresso – e altrettanto vaccinato da materialistici antidoti contro le delusioni e le sconfitte della storia –: e cioè quel filone che per l’appunto dai poeti isolani del secolo dei lumi – Meli e Tempio in testa – fino a De Roberto e Pirandello, a Brancati e Sciascia, ha demistificato le illusioni dei “nuovi credenti” e le imposture del Potere.
A questo filone appartiene Calvino, intellettuale settecentesco capitato altrove come i persiani di Montesquieu; e il suo cupo erotismo, le pose libertine, l’ingegnoso multilinguismo sono gli anacronistici bagagli ch’egli trascina, perplesso, da un secolo all’altro: dal “secolo illuminatissimo”, messo alla gogna come avevano fatto un Carlo Felice Gambino o lo stesso “giacobino” Tempio, maestro di ambiguità sorniona e dolente, al secolo dell’austerità e dell’ipocrisia borghesi. Come Tempio anche Calvino moltiplica travestimenti e dissimulazioni, ossimori ideologici imposti da nuove contingenze ma giocati con altrettanta allegria; e come Tempio – osserva opportunamente Mugno – anche l’autore di La meta a lu sticchiu coniuga eros e politica, pornografia e polemica sociale, esibizione delle parti e delle funzioni “basse” e solidarietà con i bassi ceti.
Non è un caso, perciò, che ai primi del Novecento siano stati gli anarchici della sua città a riscoprirlo; né è un caso che i “libertini” isolani (lui, Tempio, Scimonelli) siano stati riabilitati negli anni ’60, e magari a costo di qualche generosa esagerazione, da quell’altrettanto provinciale avventura anarchica che fu l’“Antigruppo” letterario (Calì e De Maria in prima fila). Né è un caso che a togliere i residui veli dal “caso Calvino” e ad esporcelo compiutamente sia oggi il trasgressivo e provocatorio Mugno: en artiste, certo, qual è, ma con l’esatta cognizione del ricercatore e del critico di professione.
Antonio Di Grado
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