Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

L'odore della cera - di Giovanni Cammareri


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L'ODORE DELLA CERA - Monitor n° 5 - 10 febbraio 2006


Catania: Festa di sant'Agata (S. Brancati)

Di salita della via San Giuliano, anche quest'anno, neanche a parlarne. E neanche del canto delle monache, subito dopo in via Crociferi, poco prima del rientro in chiesa, con il sole del 6.
Una bizzarria del tempo lo ha impedito. Come se una qualsiasi pioggia torrenziale messa lì, il 5 febbraio, fosse un evento eccezionale, una cosa abnorme, un segno di chissà quale destino avverso. Perché a Catania lo gridano ancora.
Non era mai successo affermava un devoto con tanto di sacco bianco, nel suo parlottare con aria rassegnata davanti al Duomo, rientrare però la santa era cosa giusta da fare.
Non erano ancora neanche le sette del mattino. Piazza Duomo specchiava i palazzi. Dal triste intruglio di cera e segatura, la via Etnea aveva prodotto tonnellate di fango e, più lontano, l'Etna mostrava la neve fino a basso nel suo placido e indifferente dormire; mentre a raggelare davvero il cuore e l'anima di ognuno non era tanto l'aria fredda quanto la rassegnazione che l'amata patrona si trovava già rinchiusa nella sua solita cella che mai a nessuno permette di vederla. Tutto era iniziato a finire ancor prima che la festa patronale fra le più grandiose al mondo offrisse il solito prologo, l'ultimo bagno di folla. Grandi, piccoli e vecchi di ogni luogo e condizione schiacciati l'un con l'altro in una specie di catarsi collettiva, fra innumerevoli grappoli di palloncini colorati, inebriati da quell'inconfondibile profumo della Festa fatto di zucchero caramellato e torrone, e dall'acre odore della moschetteria pronta a squassare l'aria rimbombando in tutta Catania. Ad ogni momento. Da mattino a notte. Ammesso vi sia differenza. Quindi l'odore che fa la cera. Che in questo lembo della Sicilia è gialla. Migliaia e migliaia di torce enormi, pesantissime, condotte a spalla da altrettanti devoti di bianco vestiti. E ovviamente migliaia e migliaia di fiamme fino a dove la strada comincia a salire, laggiù, in fondo a quell'universo d'altri tempi in una città che tutto' a un tratto diventa paese. Per tre, quattro, cinque e passa giorni. Magia della festa! Sortilegio che fino a un certo punto neanche la pioggia ha potuto sciogliere.
Ma l'umana resistenza non possiede tolleranza infinita.
Prime ad abbandonare sono le undici candelore. Quelle torri barocche indorate e imbandierate ricche di puttini, fregi, santi, lampioncini, appartenenti ai vari ceti cittadini, che un tempo racchiudevano un cero gigantesco. Rientrano meste al Duomo. Alle nove e qualcosa della sera. il resto della compagnia arriva stoicamente al Borgo per i fuochi più attesi, la santabarbara più fragorosa.
Alle quattro del mattino è finita per tutti. Senza quel soffio mistico delle suore che fa ancora accapponare la pelle. Senza la via San Giuliano. Senza tutto quel bianco che sembra una valanga pronta a travolgere gli anni. Una valanga sempre pronta a trasformarsi in disastro. Basta un niente, una distrazione, una fatalità e su quella salita qualcuno può perfino regalare la vita. Come due anni addietro. L'anno dell'ultima ascesa, quella vera Ce maledetta), fatta di corsa. Perché l'anno scorso si è andati a passo. Per rispetto a quel ragazzo inciampato in tutto il suo amore per sant'Agata. Quest'anno si è girati allargo. Per colpa di quel diluvio che sembra aver punito il giro interno, aristocratico del 5.
E pensare che appena il giorno prima la primavera ci aveva presi ancor prima che fosse alba, allo schiudersi delle grate che custodiscono e nascondono la martire. Immersi in quell'altro bagno di folla e di fede fra le navate di un tempio in attesa, era un tripudio di fazzoletti bianchi sventolati e di citatini, citatin~ semu tutti devoti tutti? E altri a rispondere: cettu, cettu.
Come nella processione spezzata del 5. E in quella interminabile del 4, quando alle sette e mezzo del mattino il fercolo inizia il suo tragitto per il giro cosiddetto esterno e.. .meno aristocratico; anzi, popolare. Con la sua, di salita, quella pomeridiana dei Cappuccini, forse meno spettacolare e suggestiva dell'altra, ma da mozzare il fiato ugualmente.



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