Archivio culturale di Trapani e della sua provincia

RITORNO AL FEUDO

di Alberto Barbata



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Il Feudo nell'immaginazione popolare

Per gli abitanti della Sicilia Occidentale e Centrale il feudo era stato sempre un'immensa distesa di terre, coltivate a grano, ma spesso rampanti ed incolte, punteggiata da aspre colline e timponi alti dai trenta ai cento metri e oltre. Il colore, quello giallo del grano, delle spighe, di erba secca, soltanto nella primavera di un tempo spuntava un manto verde che presto scompariva per lasciare spazio ad una desertificazione avvolgente. Alla fine di maggio, al massimo, le prime trebbie meccaniche guidate da pionie­ri volenterosi cominciavano la mietitura. E questo fino al secondo dopoguerra, ma per secoli la falce e il braccio del contadino proletario avevano operato la coltivazione. Ma il feudo significava tante cose, spesso amare e crudeli. Significava lavoro faticoso, lunghi viaggi sul carro per raggiungere la meta del lavoro dal paese piÙ vicino, dai dieci ai venti chilometri ed oltre. E non sempre le donne, che dovevano accudire i figli, potevano seguire i mariti nei lunghi tragitti fino al feudo, spesso soltanto durante la mietitura, allorquando preparavano la "ghiotta", l'agghia pistata, non sempre il "limiuni cunzatu", e provvedevano ai servizi domestici.
Spesso gli uomini si assentavano lunghi periodi dalla casa, nel paese, per i lavori campestri.
Si racconta di quel contadino che dopo un periodo di astinenza dovuto ai lavori nel feudo, allorquando tornando sul carro verso il paese, avendo raggiunto la cima del Castellaccio, iniziava ad intravedere la torre campanaria della Chiesa Madre, si sentiva rinascere, accelerava l'an­datura della mula, veniva pervaso da una voglia immensa, ed al fine della corsa entrava veloce nella sua casa, non riuscendo a trovare neanche il tempo di riporre nella stalla gli animali e gli attrezzi agricoli.
Il feudo era fatica, pertanto, e spesso abbrutimento. E la malaria spesso si aggiungeva agli altri malanni. Spesso si vedevano carri che riportavano a casa, nelle lunghe estati, uomini morti a causa delle insolazioni o altre improvvise sindromi.

Chi cosa successi, cummari Titì? U Zu Ciccinu ci vinni un colpu! Poverino!

Ed erano lunghe dolorose processioni di parenti che aggiungevano il loro al pianto degli intimi, che già prov­vedevano a rivestirsi di abiti strettamente a lutto, neri come la pece.
Ma quando la calura cessava, nel tardo meriggio, le aie degli antichi bagli, almeno di quelli piÙ abitati ed orga­nizzati, spesso si riempivano di canti, di musiche improvvisate, di balli, di tarantelle.
Il fumo usciva calmo dai comignoli, laggiLl le lunghe distese di stoppie con i singolari "pagghiari", piccole capanne improvvisate con la paglia.
E i vecchi, affabulatori per vocazione, raccç:mtavano ai bambini, spesso laceri e senza scarpe, lunghi "cuntura", favole dell'antica sicilianità o recitavano poesie , filastrocche, o versi dedicati al mondo dell'agricoltura. Altri fumavano lunghe pipe di canna e giocavano con le "cocule". Le donne preparavano la pasta per il giorno seguente, aiutati dai fanciulli che manovravano la celebre macchina denominata "arbitriu".



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Ringrazio l'amico

Vito Accardo

per avermi fatto conoscere l'Autore



Da una conversazione
con i soci de
"La Koinè della Collina"

22.07.2006 ore 21.00

Feudo Borromeo (Burrumia)

Le foto sono state gentilmente concesse dall'architetto Carlo Foderà, Presidente del Club Amici Della Terra.

Si ringrazia la Banca di Credito Cooperativo Sen. Pietro Grammatico per l'aiuto concreto dato alla pubblicazione di questo volume.




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