Archivio culturale di Trapani e della sua provincia
Trecento anni di storia civile ed ecclesiastica del Comune di Vita
scritto dall'Arciprete Don Antonino Gioia


pagina precedente

pagina successiva

Libro primo
STORIA CIVILE

Capitolo VI

DEL FONDATORE

D. Vito Sicomo non stabilì la sua residenza abituale nella terra del suo dominio, ma esercitò i diritti feudali, il mero e misto impero per il tramite degli ufficiali da lui eletti e da lui posti sotto la vigilanza immediata del fratello Michelangelo, che colla famiglia stabilì il suo domicilio in Vita(1). Gli ufficiali del Barone, i funzionari della nuova Comunità erano i seguenti:

I. Il castellano, una specie di maggiordomo, il quale, assente il padrone del feudo, vigilava l'andamento e lo svolgimento della vita e dei servizi pubblici; tutelava i diritti e i privilegi, le preminenze del barone, 1'osservanza delle consuetudini; riscuoteva gabelle, censi, terraggi, erbagi, i frutti della masseria e gli omaggi in natura dovuti al padrone. Il Castellano abitava nel castello e ne era il capitano.

II. Un capitano d'armi, che era il capo della milizia la quale serviva a tutelare l'integrità dei territori, a mantenere l'ordine e la disciplina, a prevenire i reati contro le persone e la proprietà, a punire còn mezzi sbrigativi i delinquenti colti in flagrante delitto e convinti di colpe private. Alla dipendenza del capitano d'armi, stava una compagnia più o meno numerosa di militi.

III. Un giudice per le cause civili e criminali.

IV. Tre giurati, specie di assessori, componenti l'amministrazione della Comunità; uno dei quali, chiamato giurato seniore o assessore anziano come più tardi, ai nostri tempi venne chiamato, Ebdomadario o Comdomadario, (?) ne era il capo e rappresentava il Comune. I Giurati imponevano, esigevano le tasse comunali, le tasse di dogana sugli stranieri e provvedevano ai servizi pubblici, difendevano il popolo temperando le prepotenze baronali: essi per legge erano una garanzia dei cittadini.
Il Barone, prendendo possesso della Baronia e del Feuoo, era tenuto a prestare giuramento di osservanza e di fedeltà alle leggi e alle consuetudini del Regno davanti al Giurato seniore. Per la espiazione delle colpe e dei reati, teneva il carcere. Le tracce di questo carcere si vedono tuttora. Era a pianterreno dello stesso Palazzo baronale e precisamente a sinistra di chi entra nel Baglio Piccolo dove si trovava, come si trova adesso, la porta d'ingresso sotto la volta. La finestra da cui prendeva luce dava nel Baglio Grande ed era munita di robusta grata di ferro. La grata esiste ancora e nell'interno della stanza che serviva da carcere si vedono, sull'intonaco delle pareti certi graffiti raffiguranti bastimenti popolati di soldati, marinai armati di trombone. Opera certamente dei reclusi che per ammazzare la noia della solitudine si occupavano a disegnare come potevano e sapevano.
Oggi l'antico carcere è divenuto ricetto di capre appartenenti agli eredi di certo Stefano Armata, che possiedono anche le stanze soprastanti.
Per provvedere ai bisogni spirituali degli abitanti della nuova Terra, fabbricò una Chiesetta dove fu eretta la Parrocchia affidata dal Vescovo del tempo a due Cappellani curati.
La Parrocchia sin dalla sua erezione fu autonoma, e comprendeva tutto il territodo della Baronia, che così venne sottratto dalla giurisdizione dell'Arciprete di Calatafimi, da cui dipendeva prima della costruzione in Baronia del feudo di Cartipoli e terre aggregate.
Il primo atto della nuova Parrocchia è del 16 Dicembre 1612. Se ne ha conoscenza per un atto di battesimo registrato ne1 primo libro parrochiale dei battezzati in Vita, che si conserva in Archivio. Lo trascrivo tale e quale è redatto a titolo di curiosità storica, per la forma usata in quei tempi, nella quale il solo cognome del padre è notato dopo i nomi di entrambi i genitori e per fare rilevare che alla prima neonata della terra di Vita, fu imposto il nome «Vita ».
«Die 16 Xbris XI lnd.ne 1612»
«Vita figlia di Francesco e Petra La Sala» fu battezzata da me «D. Giacomo Guaglino». Lu cumpari Cola Castronovo e la comari «Giovana la Giorgi».
Faccio altresì notare che al primo neonato fu dato pure il nome di VITO.
Ma tale chiesetta, in grazia dell'aumento della popolazione ben presto divenne insufficiente e i Giurati ottennero la licenza di poter fabbricare una nuova Matrice ampia e proporzionata ai cresciuti bisogni(2). Però non era soltanto la chiesetta insufficiente, lo erano anche i Sacerdoti preposti alla cura delle anime, e il Barone, cui stavano a cuore gli interessi spirituali dei suoi vassalli e terrazzani, costruì, a sue spese, il Convento e 1a Chiesa di S. Francesco che affidò ai Frati Minori Conventuali.(3)
Intanto, mediante i nuovi acquisti fatti dal Barone, il territorio della Baronia si ingrandiva. Difatti, nel 1613, divenuto Avv.to Fiscale della Regia Gran Corte, acquistò per il prezzo di onze 600, pari a L. 7650, dallo stesso Barone della terra di Calatafimi e per esso, da Vittoria Colonna madre e tutrice, i diritti di dominio di mero e misto imperio e di giurisdizione feudale sopra un'altra masseria denominata Chirchiaro, posseduta allora da certi Vesco da Salemi e sopra quattro salme di terra possedute dallo stesso Sicomo.
Acquistò inoltre le terre e chiuse di Calemici da potere di certi Pietro Mollica e Pietro D'Aragona nonchè una zona di terreno denominata Pietra Rinusa esistente nel territorio di Calatafimi da potere della contessa di Comiso. E così tutto il territorio della Baronia era costituito dal Feudo di Cartipo1i, dalla masseria del Chirchiaro, dalle chiuse del Gurgo di lu mortu, passu Giudea, Santu Cusumanu, terre di Calemici e di Pietra Rinusa.
Il Dott. Vito Sicomo governò la sua Terra 21 anno a contare dall'epoca della investitura al giorno della sua morte, ma computando dall'anno in cui cominciò a funzionare la Parrocchia che deve considerarsi come punto di partenza della origine del Paese, 1'effettivo e reale governo fu di 14 anni. Il Barone Fondatore non ebbe figli maschi cui trasmettere, i diritti, i privilegi, il titolo nobiliare ed i beni sui quali era costituito il Baronato. Dalla moglie Bartolomea aveva avuto un sol figlio, ma lo perdette quando ancora non era uscito d'infanzia.(4)
Per provvedere alla successione del Baronato con testamento del 9 Ott. 1621 presso il Notaro Zizzo istituì suo erede universale il fratello Michelangelo. Ma nel 1624 con un nuovo testamento olografo, pubblicato il 22 luglio 1626, presso il Notar Paolo Lombardo di Palermo, annullò il primo testamento ed invece di D. Michelangelo istituì suo erede il figlio di questi, Francesco, sua vita natural durante e dispose che alla di lui morte il titolo Baronale col mero e misto imperio e i feudi della Baronia dovessero passare all'altro figlio di D. Michelangelo a nome D. Nicolò e alla morte di questo al terzo figlio Vito.
Dispose inoltre che nel caso che i tre fratelli morendo non lasciassero figli maschi allora il Baronato fosse devoluto a titolo di successione ad un suo omonimo, Vito Sicomo figlio di Teseo ed in mancanza di lui al figlio primogenito D. Giuseppe che era Barone di S. Giovanni. Lo scopo di queste disposizioni, come egli stesso scrisse nel suo testamento, e come del resto è evidente, era quello di escludere il ramo femminile e di perpetuare il titolo baronale al casato Sicomo.
Dopo, di aver provveduto alla successione dei suoi beni e del relativo titolo nobiliare, pensò anche agli interessi della sua anima e alla stabilità della Parrocchia assicurandole i mezzi di sussistenza indispensabili al mantenimento del culto.
Pertanto diede obbligo ai suoi eredi di edificare la Chiesa Matrice nel luogo già da lui destinato e di nominare, col consenso del Vescovo, e mantenervi due Cappellani curati ai quali assegnò 50 onze annuali, e cioè 25 onze per ciascuno, da corrispondersi coi frutti e colle rendite della Baronia, oltre le decime del frumento, dell'orzo e del vino, e le primizie della frutta che si producevano nel suo feudo e un tempo dovute all'Arciprele di Calatafimi.
L'assegno ai Cappellani non era a titolo di retribuzione per l'opera apprestata da loro servizio dei parrocchiani ma come corrispettivo di S. Messe da celebrare in perpetuo per l'anima sua.
Per la Parrocchia assegnò oltre 14 onze, delle quali 4 onze come salario a due sacristi, e dieci onze per compra d'olio, di cera e d'altro occorrente al culto divino. Instituì pure un legato di maritaggio e volle che nel conferimento si eseguisse una procedura da lui stesso descritta e che rilevasi dal precitato testamento.
«Voglio e ordino, scrisse infatti, che il mio erede abbia e debba (sic) ogni anno usque ad infinitum, con intervento del Padre Priore del Convento di N. S. della Concezione di detta terra di Vita, d'Ordine di S. Francesco, e i Giurati di detta Terra, andare per detta terra di Vita e tutte l'orfane di Vita che abbiano l'età di 15 anni a imbussolare e a sorte dare onze 20 per dote di maritaggio.
Si ricordò anche dei servi e dispose per loro di piccoli legatucci. Stavano al suo servizio 5 servi: un uomo e 4 donne. Essi costituivano la famiglia del Barone e ne portavano il cognome. Difatti nel testamento sono indicati col cognome Sicomo: Antonio Sicomo, Sofia Sicomo, Giulia Sicomo, Lucia Sicomo, meno una certa Dorotea che porta il cognome di Accetta. Sofia era una serva bianca, cioè di razza bianca. Dorotea come si desume dal cognome, doveva essere delle nostre contrade; e altri tre erano di colore, erano forse della Caramania o Cilicia(5) che dirsi voglia, come lo era quel tale che fu battezzato adulto, col nome di Geronimo Sicomo.(6)
Molti, ai giorni nostri cioè a 300 anni di distanza dal 1626, per il succedersi di tante vicende politiche, di tante legislazioni, di tante civiltà, non hanno il concetto esatto, la conoscenza del significato della parola servo. Per noi questa parola, quando viene usata, è sinonimo di servitore, di domestico, e chiamiamo con tal nome, impropriamente, colui che presta i suoi servizi dietro pagamento di un compenso con libero e mutuo consentimento stabilito. Ai tempi del primo Barone non era così.
Il servo era quasi uno schiavo. La servitù vera e propria per legge era abolita, ma di fatto i Signori dei Feudi, senza le crudeltà degli antichi romani dei tempi di Nerone, e con tutte le attenuazioni, gli addolcimenti, e, con altro nome, l'esercitavano ancora.
Così, duranle il Feudalismo, il servo era come una cosa di cui può disporre il padrone, era proprietà del Signore, lo doveva servire per tutta la vita o finchè al padrone fosse piaciuto: non poteva rifiutarsi e tanto meno ribellarsi se non a costo del carcere, delle nervate o di qualche cosa di peggio. Egli non aveva personalità e diritti civili, non aveva neppure il diritto a cercare la riconoscenza del padrone o comunque a sperare un compenso.
Il Sicomo invece nelle disposizioni del suo testamento, non solo istituì alcuni legati per i suoi servi, e ciò basterebbe a far conoscere la nobiltà del suo animo e la bontà del suo cuore, ma fece molto di più: rese ad essi il più gran dono che Iddio fece all'uomo creandolo e che la nequizia dei malvagi e dei tempi gli aveva tolto: rese ad essi la libertà.(7)
(1) Nel registro dei battezzati di questa Parrocchia che va dal 1612 al 1640. si legge che D. Michelangelo ed 11 Figlio Geronimo furono padrini in molti battesimi. Nello stesso registro a pago 50 è notato che il 2 Giugno del 1622 fu battezzato un adulto schiavo del barone, nato in Caramania, e padrini furono D. Michelangelo e Donna Faustina Sicomo. Al battezzato fu dato 11 nome del loro figliolo: Geronimo.
(2) Vedi atto 5 Ottobre 1617 rogato Notario Blundo di Palermo.
(3) Questa notizia ce la fornisce una iscrizione che si legge sotto il ritratto del Sicomo che sino al 1836 si conservava nel Convento, ed oggi che il Convento divenne casa comunale si conserva nella sala del Podestà. L'inscrizione è del seguente tenore: Ecc.us Dominus Doctor D. Vitus Sicomo in urbe Panormitana Preses ex Baronibus Consiliarlus - huius Siciliae Regni, Dominus Terrae Vitae et Fundator huius Con.tus Divi Francisci Ordinis Conventualium. Migravit ex ac vita die 8 Iulii anno D.ni Millesimo sexentesimo vigesimo sexto.
(4) Vedi Vito Amico - dizionario topografico della Sicilia, volume II.
(5) La Cilicia è una provincia dell'Asia.
(6) Vedi retro a pag. 53 in nota.
(7) Al servo Antonio Sicomo legò onze 6 e lo rese libero. Alla Serva Bianca Sofia legò onze 40 e la libertà. Alla serva Lucia Sicomo la libertà coll'obbligo di servire sua moglie Paola Sicomo (era la seconda moglie). Alla serva Giulia Sicomo la libertà coll'obbligo di servire sua moglie Paola Sicomo. A Dorotea Accetta (che forse non era una schiava) legò una ciucca di scoto cioè una veste di scoto. Vedi testamento citato.




pagina precedente

pagina successiva












E-mail e-mail - redazione@trapaninostra.it